La guerra? Niente altro che uno strumento, uno dei tanti, della politica. Così sostenevano quanti vedevano nello scoppio del primo conflitto mondiale un potenziale di crescita degli interessi di ogni singolo Stato nella definizione di un nuovo equilibrio tra le potenze europee e mondiali. Un conflitto, del resto, che nella percezione di quanti l’auspicavano sarebbe stato breve e foriero di gloria.
Questi furono dunque i valori e le aspettative rappresentate inizialmente in quei primi anni del secolo mentre ci si avvicinava al conflitto ma, come ben sappiamo, non fu certo quella la realtà. Passarono settimane, mesi, anni, prima furono decine, poi centinaia, per arrivare a milioni di morti e altri milioni di feriti. Oltre alle distruzioni, alla fame, al dolore, agli stenti, alle privazioni non solo dei soldati al fronte ma anche dei civili, delle donne, dei bambini, degli anziani rimasti a casa.
Dunque la guerra come strumento dei potenti, di chi governava e dei loro servi alla ricerca di visibilità. Figure come Gabriele D’Annunzio, capaci di esaltare restando al sicuro nelle retrovie il valore dello scontro, del sacrificio, della gloriosa morte, volando nei cieli sopra Fiume badando di restare sopra il livello di fuoco dell’artiglieria nemica fuori pericolo, minacciando i soldati che rifiutavano di attraversare i ponti esposti al fuoco impietoso delle mitragliatrici che non lasciavano scampo.
Certo, lentamente, anche nelle rappresentazioni della realtà proposte dall’arte, scomparve ogni tipo di retorica, vennero meno le ambizioni di potenza e si fece prevalente quella di arrivare prima possibile alla fine del macello. Arrivato il tempo della pace milioni di sopravvissuti si rialzarono in piedi, pronti ad affrontare difficoltà e sacrifici con la speranza di un domani migliore per la loro vita e per quella dei loro figli.
Purtroppo non andò come la gente del popolo, la gente che non ha potere voleva e sperava. In fondo come disse Winston Churchill in realtà quella pace che concludeva la Grande Guerra in realtà non fu altro che un lungo armistizio in attesa di un altro grande macello voluto ancora una volta da chi gestiva la vita della gente dall’alto d’una torre d’avorio basata sul potere dei pochi rispetto ai tanti.
Un passato che non deve tornare ma occorre attenzione: la contrapposizione ideologica ed esistenziale tra capitalismo e comunismo, tra populismo e democrazia rappresentativa, tra benessere di un mondo (quello ‘occidentale’) e popolazioni in fuga dalle guerre, dalle dittature, dalla fame, potrebbero riportarci agli orrori ben rappresentati dall’interessante mostra in corso presso la galleria d’arte Biffi di via Chiapponi a Piacenza fino al 10 febbraio.
In mostra negli spazi dell’Antico Nevaio (il piano sotterraneo della galleria) troviamo infatti una eccezionale collezione (a cura di Claudio Stacchi, Luigi Bergomi e Giuseppe Cauti) di 150 ex libris su temi ispirati al primo conflitto mondiale: un corpus esemplare di piccola grafica in cui, fatto rarissimo, possiamo vedere la rappresentazione della vita di quegli anni cruciali.
In altre parole, una occasione per ricordare che la guerra, ogni guerra, anche quella condotta senza armi ma basando sulla costruzione di muri che dividono, diventa una cicatrice profonda, una ferita che resta infetta, che presto o tardi ripresenta il conto dell’odio.