La pop art, corrente artistica nata nella seconda metà del XX secolo, rivolge la propria attenzione agli oggetti, ai miti e anche ai linguaggi della società dei consumi ponendosi l’obiettivo di superare le convenzioni artistiche del passato. Il concetto di pop art si riferisce non tanto all’arte stessa, quanto piuttosto agli atteggiamenti che la determinano. Atta a criticare il consumismo che si diffondeva negli anni sessanta, la pop art respinge l’espressione dell’interiorità e dell’istintività e guarda, invece, al mondo esterno, al complesso di stimoli visivi che circondano l’uomo contemporaneo: il cosiddetto “folklore urbano”.
È infatti un’arte aperta alle forme più popolari di comunicazione: i fumetti, la pubblicità, i quadri riprodotti in serie. Il fatto di voler mettere sulla tela o in scultura oggetti quotidiani elevandoli a manifestazione artistica si può idealmente collegare al movimento svizzero Dada, ma completamente spogliato dalla carica anarchica e provocatoria.
La sfrontata mercificazione dell’uomo moderno, l’ossessivo martellamento pubblicitario, il consumismo eletto a sistema di vita, il fumetto quale unico, residuo veicolo di comunicazione scritta, sono i fenomeni dai quali gli artisti pop attingono le loro motivazioni. In altre parole, la pop art attinge i propri soggetti dall’universo del quotidiano – in specie della società americana – e fonda la propria comprensibilità sul fatto che quei soggetti sono per tutti assolutamente noti e riconoscibili.
La rappresentazione degli hamburger, delle auto, dei fumetti si trasforma presto in merce, in oggetto che si pone sul mercato (dell’arte) completamente calato nella logica mercantile (un’opera di Lichtenstein vale milioni di dollari). Ciò nonostante gli artisti che hanno fatto parte di questo movimento hanno avuto un ruolo rivoluzionario introducendo nella loro produzione l’uso di strumenti e mezzi non tradizionali della pittura, come il collage, la fotografia, il cinema, il video e la Musica.
L’appellativo “popolare” deve essere inteso però non come arte del popolo o per il popolo, ma più puntualmente come arte di massa, cioè prodotta in serie. E poiché la massa non ha volto, l’arte che la esprime deve essere il più possibile anonima: solo così potrà essere compresa e accettata dal maggior numero possibile di persone.
Tra i maggiori rappresentanti del genere troviamo appunto Roy Lichtenstein, che si richiamò al mondo dei fumetti, e che possiamo ammirare a Mamiano dove sono esposte circa 80 opere alle quali se ne aggiungono altre come esempio del movimento artistico nel suo complesso e in particolare da citare il volto di Marilyn Monroe, uno dei tantissimi realizzati da Andy Warhol.
Andy Wahrol, altro maestro riconosciuto della pop art, regista cinematografico, trasformò l’opera d’arte da oggetto unico in un prodotto in serie, come nella celebre serie dei barattoli di zuppa di pomodoro Campbell, con la quale egli confermò, di fatto, che il linguaggio della pubblicità era ormai diventato arte e che i gusti del pubblico si erano a esso uniformati e standardizzati.
Insomma, Roy Lichtenstein (New York 1923-1997) è, insieme a Andy Warhol, la figura più rappresentativa e più conosciuta della Pop Art, e dell’intera storia dell’arte della seconda metà del XX secolo. Il suo caratteristico stile mutuato dal retino tipografico, il suo utilizzo del fumetto in ambito pittorico, le sue rivisitazioni pop dell’arte del passato lontano e recente sono entrate non solo nella storia dell’arte del Novecento, ma nell’immaginario collettivo anche delle nuove generazioni, stampati all’infinito su poster e oggetti di consumo. A distanza di decenni i suoi dipinti continuano a suscitare enorme interesse nel mercato dell’arte e sono stati venduti anche negli ultimi anni per decine di milioni di dollari. Il passaggio nella ‘Villa dei Capolavori’ a Mamiano dunque diventa obbligo per incontrare questa forma di espressione artistica che, sicuramente, va approfondita nel suo senso rivoluzionario generatore di cambiamento del significato stesso dell’arte e dei suoi modi di espressione.