Piacenza: “La Grande Guerra”, mostra a Palazzo Gotico fino al 30 dicembre

E’ allestita a palazzo Gotico dal 4 novembre al 30 dicembre la mostra dedicata alla Grande Guerra. L’esposizione vede la presenza di oltre 40 uniformi e centinaia di cimeli tra cui equipaggiamenti, decorazioni, documenti e vari oggetti personali utilizzati dai militari italiani durante la guerra, tutti rigorosamente originali. I cimeli sono stati raccolti e custoditi negli anni con cura e rispetto da quattro collezionisti privati (tra i quali l’amico Filippo Lombardi) che in occasione del centenario della vittoria hanno deciso di esporli, con il fine di preservare e tramandare nel tempo i sacrifici compiuti da coloro che hanno combattuto sui vari campi di battaglia esattamente 100 anni fa.

Particolarmente interessante, in apertura, una camicia rossa garibaldina: del resto furono molti i reduci delle guerre risorgimentali che avevano ‘fatto l’Italia‘ a partire per i fronte, in genere volontari, nonostante fossero ‘fuori età‘.

All’allestimento hanno collaborato il 2° reggimento genio Pontieri e il Polo di mantenimento pesante nord, esponendo propri materiali e cimeli che vanno ad arricchire ulteriormente la varietà dei reperti messi in mostra.

Una riflessione mentre passiamo letteralmente da una divisa all’altra: non dimentichiamo che la prima guerra mondiale è stata e rimane uno dei miti fondativi dello stato-nazione, soprattutto nei paesi vincitori. Gli anni tra il 1914 e il 1918 sono stati avvolti da un’aura di sacralità che ancora oggi si può cogliere nei monumenti, nei cimiteri e nelle cerimonie che ricordano la grande guerra. Un’atmosfera che permea anche la mostra a Palazzo Gotico.

Per anni il conflitto è stato sottratto ad analisi obiettive ed è stato letto solo attraverso la lente deformante dell’eroismo, dell’onore, della patria, della propaganda bellica. Da questa visione sono stati cancellati episodi sgraditi alla retorica ufficiale come le renitenze, il pacifismo, le fraternizzazioni tra nemici, le diserzioni, gli ammutinamenti, le rivolte. Pagine che però sono fondamentali per capire meglio quell’immensa carneficina che fu la prima guerra mondiale, a cent’anni dalla sua fine e, questo, risulta sicuramente un limite per la mostra piacentina.

In realtà, l’interventismo fu un fenomeno assolutamente minoritario. Come racconta Marco Rossi in Gli ammutinati delle trincee, i volontari furono appena 8.171, spesso del tutto emarginati dai commilitoni che li consideravano fanatici e spie degli ufficiali. La maggioranza della popolazione accettò con rassegnazione il conflitto.

Per ragioni ideologiche o anche solo per salvarsi la pelle, molti reclutati cercarono rifugio nella neutrale Svizzera. Gli anarchici organizzarono canali di espatrio per renitenti e disertori. Il sistema più diffuso per sfuggire all’arruolamento fu però quello di non presentarsi alla visita di leva. Il numero dei renitenti in Italia fu più alto che in altri paesi: ben 470mila persone non si presentarono. In Sicilia i renitenti furono circa 100mila, il 61 per cento dei richiamati.

Per i soldati l’arrivo al fronte fu un trauma, sia per le devastazioni causate dalle nuove tecnologie militari, sia per la totale impreparazione dell’esercito italiano. Dopo i primi giorni in cui gli italiani conquistarono facilmente il Friuli austriaco – spesso usando metodi repressivi di tipo coloniale contro le popolazioni locali – alle pendici del Carso, fortificato dagli austriaci, cominciò la guerra di posizione fatta di trincee, bombardamenti, assalti frontali.  

Il capo di stato maggiore Luigi Cadorna ripropose le stesse inefficaci strategie già sperimentate su altri fronti, con carneficine che costarono la vita a centinaia di migliaia di soldati senza quasi nessun risultato pratico. A Cercivento, sulle Alpi carniche, quattro alpini rifiutarono di andare all’attacco del monte Cellon in pieno giorno, consigliando il capitano di attaccare di notte per approfittare della nebbia. L’ufficiale, un calabrese, nemmeno capì la proposta dei quattro che parlavano friulano e li mise al muro. Il monte fu poi conquistato di notte, dopo centinaia di morti caduti negli assalti condotti alla luce del sole.

Prima dell’uscita dei fanti dalle trincee le artiglierie martellavano le postazioni nemiche per eliminare ogni resistenza. Ciò avrebbe dovuto permettere ai soldati di lanciarsi all’attacco delle fortificazioni nemiche sguarnite, ma la strategia spesso non funzionava: le artiglierie sbagliavano il tiro e bombardavano le proprie linee; oppure le comunicazioni con i comandi si interrompevano e l’attacco della fanteria veniva sferrato troppo presto, quando i cannoni stavano ancora bombardando, o troppo tardi, quando i nemici erano già tornati in posizione.

Il Piave mormorava e gli italiani rinfrancati dopo la sconfitta di Caporetto andavano all’assalto? Macchè: alle spalle avevano i Carabinieri che sparavano a chi, di fronte alla carneficina, arretrava o esitava.

Nel marzo del 1917 soldati della brigata Ravenna si rivoltarono sparando in aria per la revoca delle licenze e l’ordine di raggiungere di nuovo la prima linea. In luglio due reggimenti della brigata Catanzaro, in retrovia da pochi giorni, rifiutarono di tornare in prima linea: uccisero alcuni ufficiali e cercarono di attaccare la villa dov’era ospitato D’Annunzio, che si trovava lì vicino. La protesta sfociò in una vera e propria rivolta al grido di “Abbasso la guerra”, “Morte a D’Annunzio”, “Vogliamo la pace!”, ma fu repressa da carabinieri, reparti di cavalleria, artiglieria e perfino aerei.

Dopo Caporetto i militari italiani che si stavano ritirando furono fermati sul Piave da uno schieramento di carabinieri e di giovani reclute appena arruolate. I soldati in rotta, convinti che la guerra ormai fosse finita, avevano gettato le armi: non furono dunque in grado di reagire e furono costretti a riprendere la guerra. Qualcosa di simile successe tra gli austriaci l’anno successivo: in estate ormai 230mila avevano abbandonato le armi ed erano tornati a casa.

In pratica la guerra si concluse con una diserzione di massa: milioni di soldati spossati cessarono semplicemente di combattere. Ma questa versione dei fatti non poteva essere ammessa dalle gerarchie militari che mascherarono quest’epilogo raccontando di epici scontri finali che in realtà non ci furono. Quando con la battaglia di Vittorio Veneto gli italiani sfondavano le linee nemiche, spesso le trovarono deserte.

La storia della prima guerra mondiale, dunque, è tutt’altro che la storia di trionfi, di eroismo e di battaglie epiche raccontata dalla propaganda nazionalista e militare. Tolto il velo di retorica, restano i massacri, le fucilazioni sommarie, le punizioni dei soldati, ma anche gli episodi di fraternizzazione tra nemici, che dimostrano come tantissimi soldati riuscirono a restare umani nonostante fossero obbligati a combattersi.

Precisata una verità storica che purtroppo continuiamo a non trovare scritta nei libri di scuola, resta la mostra che vale comunque la pena visitare, proprio in onore a chi comunque ha dovuto sacrificare la propria vita e la propria gioventù per combattere la guerra che lo stesso Papa Benedetto XV definì “un’inutile strage“.

Programma e orari di apertura della mostra
Tutti i mercoledì e i venerdì solo pomeriggio dalle 15.30 alle 18.00.
Tutti i sabati e le domeniche mattina e pomeriggio nei seguenti orari: 09.30 – 12.00 e 15.30 – 18.00 
Apertura straordinaria lunedì 24 dicembre nei seguenti orari: 09.30 – 12.00 e 15.30 – 18.00

Pubblicato da arzyncampo

14 febbraio 1954, bassa pianura emiliana, Fiorenzuola d'Arda, quell'era le debut. Oggi vivo e lavoro a Piacenza. Giornalista pubblicista, il destino ha voluto mi impegnassi in tuttaltro campo, al servizio dei cittadini nella sanità pubblica. Tuttavia scrivere, per me, é vitale, divertente, essenziale, un mezzo per esprimere la mia presenza nel mondo e dir la mia. Così dal giornalismo sono passato, per passione e non per lavoro, alla poesia, alla narrativa, ai resoconti, agli appunti ovunque e su tutto, fino alla scoperta del blog. Basta scrivere, appunto, per dire di aver qualcosa da dire alla gente di questo nostro mondo. Fin quando avrò una penna, ci sarò.

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