L’intervista impossibile a Gabriel Garcia Marquez, di Alberto Zanini (dal blog ‘I gufi narranti’)

Dopo lo scalo a Bogotà, sono a Cartagena per “L’Hay Festival di Cartagena de Indias.”

Quale occasione più ghiotta per un breve tour, nella città più bella della Colombia, in compagnia di Gabriel Garcia Marquez. L’emozione è forte, ma lui, con il suo sorriso bonario, mi rassicura e incoraggia.

Passeggiamo sulla spiaggia di Bocagrande tra schiamazzi di ragazzini e palloni che sfrecciano impazziti.

Parli un italiano discreto. Quando lo hai imparato?”

Venni a Roma nel 1955, avevo 28 anni ero inviato del quotidiano ‘El Espectador’. Il mio compito era seguire lo stato di salute del Papa Pio XII. Non ci crederai, ma aveva una crisi di singhiozzo. Feci anche altri articoli, sul Festival di Venezia, sull’omicidio di Wilma Montesi ed ebbi anche occasione di iscrivermi al corso di regia del Centro sperimentale di cinematografia.

Camminando sulla spiaggia incontriamo delle donne, con delle vesti variopinte, che tengono sulla testa dei catini di alluminio pieni di frutta tropicale.

Queste sono le ‘Palenqueros., vendono la frutta. Sono tipiche di Cartagena. Credo che le troverai solo qui.”

Lasciata la spiaggia ci avviciniamo verso il centro storico.

“Gabo, un giorno hai detto: ‘Ho avuto una fortuna mal distribuita’. Perché?”

Perché fino a quarant’anni non ebbi né soldi né successo, e dovetti arrangiarmi per mantenere la mia famiglia, facendo mille lavori finché non scrissi “Cent’anni di solitudine”che mi fece diventare famoso.”

Come è nata in te l’idea di Cent’anni di solitudine?”

Avevo diciassette anni quando inizia a scrivere un romanzo che s’intitolava: ‘La casa de Los Buendias’, ma non riuscivo ad andare avanti con la storia. Accantonai l’idea finché non decisi di riprendere in mano il romanzo e scrissi ‘Cent’anni di solitudine’. Per anni ho odiato quella storia, perché volevo scrivere un libro e non creare un mito, e per tanti anni sono rimasto prigioniero di quel libro. Non ho scritto la storia della mia vita, ma parla di ricordi, della gente e del mio paese. Il mio libro preferito è: ‘L’amore ai tempi del colera’, e mi piacerebbe che la gente si ricordasse di me per questo.”

Come mai hai chiamato Macondo il paese dove si svolge Cent’anni di solitudine?”

In realtà Macondo era una scritta che lessi all’ingresso di una piantagione di banani. Dovrebbe essere un albero dei tropici, e con il suo legno si costruiscono canoe.”

Si parla di te come l’inventore del “realismo magico

“Non credo che sia esatto. Prima di me Borges e Dino Buzzati hanno scritto opere con elementi magici o sovrannaturali che i personaggi accettano senza cercare di spiegarli. Anche questo è realismo magico.”

Nel frattempo, attraversando piazza S.Domingo, vedo una grande scultura di metallo che raffigura una donna nuda sdraiata.

Non conosco questa opera, ma riconosco lo stile dell’autore. Botero e te siete sicuramente i colombiani più conosciuti all’estero. Avete mai avuto dei rapporti artistici?

“Questa scultura si chiama ‘La gorda Gertrudis’ che in italiano vuol dire La grassa Gertrude. Io e Fernando eravamo 2 giovani, ed incominciavamo ad essere conosciuti in Colombia, quando nel 1960 scrissi il racconto: ‘La siestas del martes’ e lo proposi al quotidiano El Tiempo, chiedendo però esplicitamente che fosse illustrato da Botero. Venni accontentato e fui molto contento.”

Che rapporto hai avuto con la poesia?

“Molto forte. Fin da giovane amavo leggere le poesie, ogni momento era quello buono. Andavo nella Biblioteca Nazionale, in una sala di musica, a leggere le poesie, e quando era l’ora di chiusura, prendevo il tram e con 5 centesimi continuavo a fare il giro leggendo. La sera terminavo la mia giornata nei fumosi caffè della zona vecchia della città, a chiacchierare di poesie, mentre il mondo faceva l’amore.”

Siamo nel quartiere di Getsemani e con garbo Marquez mi guida verso un tavolino del Caffè Havana, dove lo scrittore ha ambientato molte sue storie. Con due bicchieri di Ron Viejo de Caldas davanti riprendiamo la chiacchierata.

Ho letto che ti piace anche la musica.”

“Certamente, anche la musica ha rivestito un ruolo molto importante nella mia vita. Amo molto il violoncello. Per la verità, una volta per scriver avevo bisogno del silenzio assoluto per potermi concentrare, in seguito ho imparato a scrivere con un sottofondo musicale. Quando scrissi ‘L’autunno del Patriarca’ ascoltavo continuamente il Terzo Concerto per Pianoforte di Bela Bartok, e non so come fecero a saperlo, ma quando ricevetti, nel 1982, Nobel per la Letteratura in sottofondo misero quella musica.” mentre conclude un sorriso illumina il suo viso incorniciato dalle folte sopracciglia.

In quella occasione il tuo discorso colpì molte coscienze.”

Citai Faulkner che, quando gli consegnarono il Nobel, disse: “Mi rifiuto di ammettere la fine dell’uomo”. Nel mio discorso parlai della solitudine dei sudamericani, del disinteresse che il mondo aveva per il Sud America, parlai dei desaparecidos, dei colpi di Stato e delle guerre”

Quel giorno ti presentasti in una veste insolita, rompendo un po’ la tradizione che prevede come vestito il frac.”

Indossavo il ‘liqui-liqui’ che è una camicia bianca tipica della zona caraibica. In realtà il frac per me è il vestito dei becchini e dei morti.”

Hai abbandonato i tuoi studi universitari per fare il giornalista.”

Ricordo che mio padre non ha mai voluto accettare la mia decisione. Ho amato molto fare il giornalista, anche se devo dire che il giornalismo è la forma più bella di morire di fame.”

Hai sempre avuto un rapporto molto forte con il cinema, anche in Italia hai avuto modo di frequentare attivamente quell’ambiente. Hai anche finanziato la Fondazione del nuovo cinema latino Americano di San Antonio de Los Banos.”

In quel periodo rilasciavo interviste televisive che mi venivano pagate molto bene, ed io davo quei soldi alla scuola dove insegnavo sceneggiatura. Però sono convinto che con la scrittura si possa fare di più che con il cinema.

La tua meticolosità nello scrivere è rimasta proverbiale.”

Si, sono maniacale, riscrivevo 6 volte ogni romanzo. Voglio avere ben chiara la storia che scriverò, e il primo paragrafo è la cosa più importante e complicata da scriver. Il resto viene di conseguenza.

Abbiamo ripreso a camminare e in Plaza Bolivar di fronte a quello che fu il Palazzo dell’Inquisizione vi sono delle panchine. Gabo me ne indica una e dice: “Quante notti passai a dormire sulla panchina. Non avevo i soldi e non potevo permettermi una stanza un sorriso amaro si apre sotto i suoi folti baffi.

Si è parlato molto della tua amicizia con Fidel Castro e della tua simpatia per il comunismo.

Conobbi Fidel nel gennaio del 1959. Ma non capisco perché si attaccano le etichette alla gente. Nel 1957 scrivevo per il giornale El Espectador e feci un reportage sull’Unione Sovietica, Ungheria e Polonia prendendo le distanze da quei regimi. Non sono comunista, non conosco il marxismo e non ho mai letto niente in merito. Vivendo in America Latina ho capito però molte cose comprese le necessità della mia gente. L’amicizia con Fidel si è allargata anche verso il popolo cubano. L’amore io non riesco a spiegarlo, io di solito lo uso l’amore. A proposito di Fidel, ricordo che un giorno lo accompagnai in un viaggio in India. Doveva incontrarsi con il primo ministro Indira Gandhi. Rimasi in aereo ad aspettarlo, ma quando la Gandhi seppe che c’ero anch’io sali sull’aereo perché voleva conoscermi. Diventammo amici e le promisi che sarei tornato in India per visitarla assieme a lei. Poco tempo dopo venne assassinata e io non tornai mai più in India.

Mentre ci addentriamo nei vicoli stretti del centro storico una languida atmosfera ci stordisce e ci culla, e Gabo mi dice: “La vita non è quella che uno ha vissuto, ma quella che uno ricorda e come la ricorda per raccontarla. Sarebbe stata una bellissima chiacchierata, se io non fossi morto il 17 aprile 2014.

Pubblicato da arzyncampo

14 febbraio 1954, bassa pianura emiliana, Fiorenzuola d'Arda, quell'era le debut. Oggi vivo e lavoro a Piacenza. Giornalista pubblicista, il destino ha voluto mi impegnassi in tuttaltro campo, al servizio dei cittadini nella sanità pubblica. Tuttavia scrivere, per me, é vitale, divertente, essenziale, un mezzo per esprimere la mia presenza nel mondo e dir la mia. Così dal giornalismo sono passato, per passione e non per lavoro, alla poesia, alla narrativa, ai resoconti, agli appunti ovunque e su tutto, fino alla scoperta del blog. Basta scrivere, appunto, per dire di aver qualcosa da dire alla gente di questo nostro mondo. Fin quando avrò una penna, ci sarò.

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