“Io e il sessantotto”, testimonianza di Remo Bassini, giornalista e scrittore in Vicenza

Il mio 68.
A grandi linee, però

Nel 1969 avevo 12 anni.
Di nascosto, partecipai a una manifestazione, ero in prima fila. Poi pensai che se mio padre e, soprattutto, mia madre l’avessero saputo sarebbero stati cavoli; così presi un lembo di una bandiera rossa e me la misi davanti, sperando di non essere riconosciuto dalla caviglie.

Passano gli anni, leggo Marx, bene anche.
So che Marx non prevede(va) il socialismo in un paese unico.
Lo Stato socialista è stata una necessità, prima, un abominio poi.
Ho letto Marx, Lenin, Bordiga, Gramsci, Trotzkij.
Ho letto di Kronstadt (altroché il muro di Berlino).
E’ il 1922.
Un gruppo di comunisti anarchici, o anarco-comunisti, si ribella al potere dei Soviet. Quei marinai, quei rivoltosi, capiscono con anni di anticipo che la rivoluzione russa sta semplicemente sostituendo il capitalismo e il potere degli zar con il potere di un gruppo di burocrati.
La cristallizzazione della burocrazia al potere, le definirà poi Trotzkj.
La capirono e si ribellarono, e morirono anche, perché stava morendo un sogno.
Come morirono tanti intellettuali, vittime dello stalinismo.

Torno a me, al mio non-sessantotto.
Nel 1973-74 faccio le superiori. Leggo ma… lego poco.
La divisa d’ordinanza del 68 non mi piaceva.
Invece dell’eskimo avevo o un giaccone nero di pelle o un impermiabile bianco.
Frequento un po’ di gruppi della sinistra extraparlamentare, ma senza entusiasmo. Vedo che tanti hanno il Manifesto o Lotta Continua ma sanno un tubo di Marx o di Hegel.
Poi, non dimentico mai d’essere il figlio di un operaio.
E quando in quegli anni la Montefibre lascia a casa migliaia di lavoratori ci sono anche io alle manifestazioni, agli incontri.
Ora semplifico, e tanto.
In questi incontri, in queste assemblee io vedo, grosso modo, che si fronteggiano due anime.
Quella del vecchio Pci.
Quella della sinistra extraparlamentare.
Quella del vecchio Pci è piana di contraddizioni. Parla Togliatti, Togliatti è vangelo, parla Berlinguer, Berlinguer è vangelo.
Dallo stalinismo il vecchio Pci (adoravo Terracini, però) passa al compromesso storico.
L’altra anima, quella della sinistra extraparlamentare, è l’anima degli intellettuali, degli studenti. Bene, mi accorgo subito che hanno un difetto, schifoso, che adesso è un patrimonio della sinistra italiana: quando parlano hanno la puzza sotto il naso.

Io nel 1975 (avete in mente la canzone di Venditti? Compagno di scuola, compagno di niente… o sei entrato in banca pure tu) ho tre possibilità:
fare l’università (e in effetti mi iscrivo a filosofia, alla Statale).
andare a lavorare in banca, per davvero.
andare in fabbrica.
Scelsi la fabbrica.
Scelsi la fabbrica proprio nel momento d’oro del vecchio Pci.
Governava in cinque regioni, mi pare, era pronto al compromesso storico, era nuclearista, era contro la riduzione dell’orario di lavoro.
Per un po’ di tempo frequentai i trotzkisti di Torino (conobbi un gran bravo scrittore giornalista, che non c’è più, Edgardo Pellegrini), ma soprattutto feci del sindacalismo, nella Cisl di Pierre Carniti.
Però riprendo anche a studiare.
La classe operaia, avevano ragione i vecchi leader del vecchio Pci come Amendola, era attratta sempre più dal consumismo, addio vecchi valori, addio battaglie di solidarietà per gli altri.

Oltre a vedere i difetti negli altri ne scoprii uno anche in me: non riuscivo ad entrare in un gruppo.
Certe volte la parola “noi”, che alla fin fine è semplice e composta da tre letterine, mi faceva vomitare.
Come sindacalista comunque lasciai un buon ricordo negli operai e un cattivo ricordo nei miei datori di lavoro: organizzando scioperi, ascoltando i problemi dei lavoratori meno tutelati (credete che in fabbrica una ragazza madre abbia la solidarietà di tutti? Rispondo io: col cavolo. La fabbrica ha grandi slanci, la fabbrica ha grandi meschinità).

Quella parola “Noi”, a volte sono stato io ad invocarla.
Una volta, ricordo.
La Fiat aveva licenziato una cinquantina di lavoratori.
Sciopero di solidarietà, assemblea sindacale di solidarietà, parole di solidarietà.
Davanti a un centinaio di persone (delegati sindacali) feci una proposta:
Ogni operaio metalmeccanico versa una piccola parte del suo stipendio a un conto di solidarietà, per quei cinquanta lavoratori.
Non piacque. Bisognava cercare altri strumenti (eppure io ricordavo certi slanci a inizi secolo di certe battaglie operaie…).

Il 68, dunque, io l’ho vissuto di riflesso.
Me l’hanno raccontato.
I racconti di fabbrica di mio padre.
I racconti dei miei amici più vecchi che facevano la Statale.

Dico sempre che quando vado a Cortona, il mio paese, io mi sento molto piemontese e che, viceversa, quando sono in Piemonte io mi sento molto toscano.
Faccio così anche col 68.
Lo critico, lo difendo, a seconda del mio interlocutore.
Stessa cosa faccio quando si parla del sindacalismo.
A chi dice – solita frase fatta – che i mali dell’Italia nascono proprio dal sindacato io domando se sanno cos’era la fabbrica prima dello Statuto dei lavoratori; domando se sanno che un datore di lavoro poteva licenziare solo perché tu gli stavi antipatico (o eri comunista); domando se sanno cos’era la voce Malsano in busta paga.
Malsano in busta paga era una voce che equivaleva a 100 lire al giorno in più.
100 lire per lavorare in reparti ad alto rischio, lavorazione di acidi insomma.
Gente che insomma per non morire di fame è comunque morta: ma prima del tempo. I tumori delle fabbriche.
E che dire poi dei reparti dei cornuti? Operai che, guarda caso, lavoravano nello stesso reparto e poi non riuscivano ad avere rapporti sessuali.
Gli si seccavano i coglioni, racconta il mio vecchio.

Il problema del linguaggio che non comunica perché “noi” siamo quelli che sappiamo e gli altri sono coglioni l’ho vissuto anche in fabbrica.
Quando c’erano le elezioni dei delegati sindacali (i vecchi consigli di fabbrica) prendevo sempre più voti di tutti. Parlavo, mi sforzavo di parlare in modo semplice.

Questa l’ho già raccontata, qui, ma ora devo riraccontarla.
Un giorno arriva un sindacalista, parla ai miei compagni di lavoro in assemblea. A un certo punto dice “I rapporti di forza sono mutati”.
Bene.
Una donna, sui quaranta, sposata con un operaio (e che quindi non aveva né il tempo né la voglia di leggere Il Manifesto o l’Unità) mi chiese, quasi vergognandosi: Cosa sono i rapporti di forza?
Feci due cose. La prima: le spiegai. La seconda: andai al sindacato e litigai: Perché quando mi dissero “con che cazzo di gente abbiamo a che fare” io mi inalberai.
Dissi che quella donna, finito il turno di lavoro, ne aveva un altro: con figli e lavatrici.

Ho tralasciato, certo, tante cose, i decreti delegati, il mio impegno antinucleare proprio quando il Pci lo era, i racconti che mi fece un mio amico della Russia comunista; lui ci andava, per lavoro, aveva una relazione con una donna comunista, a Mosca; lui, che era di Lotta Continua, divenne anticomunista.
Oppure, in ordine di tempo, i racconti che mi ha fatto invece un giornalista rumeno. Oppositore del governo comunista, lui che era ingegnere finì a lavorare in miniera. Operaio minatore.
Poi addio comunismo, arriva la libertà e con la libertà la fame, la delinquenza, lo sfruttamento della prostituzione. Dal peggio al peggio è passato, questo mio amico.
In Romania, ora, ci son tanti datori di lavoro italiani: han capito che lì si risparmia. E che lì chi ha i soldi vive bene, tanto, e chi non li ha vive male, tanto.
Anche questo mio amico è un marxista: fino a Kronstadt, 1922.
Ora almeno fa il giornalista.

Una volta andammo in un bar di Vercelli, Presi un caffè, chiesi cosa voleva. Mi disse, quasi con difficoltà, a fatica: un caffè e latte.
Ci sedemmo.
A un tratto mi disse: Oggi per me è una bella giornata.
Non capivo (cazzo dice questo?).
Capì che non capivo: così aggiunse che era una bella giornata di sole e poi avvicinò la tazza del suo caffè e latte alle labbra, socchiudendo gli occhi. Quel cappuccio e un po’ di sole, già.

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Pubblicato da arzyncampo

14 febbraio 1954, bassa pianura emiliana, Fiorenzuola d'Arda, quell'era le debut. Oggi vivo e lavoro a Piacenza. Giornalista pubblicista, il destino ha voluto mi impegnassi in tuttaltro campo, al servizio dei cittadini nella sanità pubblica. Tuttavia scrivere, per me, é vitale, divertente, essenziale, un mezzo per esprimere la mia presenza nel mondo e dir la mia. Così dal giornalismo sono passato, per passione e non per lavoro, alla poesia, alla narrativa, ai resoconti, agli appunti ovunque e su tutto, fino alla scoperta del blog. Basta scrivere, appunto, per dire di aver qualcosa da dire alla gente di questo nostro mondo. Fin quando avrò una penna, ci sarò.

4 Risposte a ““Io e il sessantotto”, testimonianza di Remo Bassini, giornalista e scrittore in Vicenza”

  1. Remo Bassini è il mio "datore di lavoro"! 😀
    Sono una collaboratrice de La Sesia, il suo giornale 😉
    Buona domenica,
    flower.

  2. I giochi del destino, ieri operaio e rivoluzionario, oggi dall’altra parte della scrivania?

  3. leggo solo ora, a distanza di anni, il tuo commento Claudio, che scrivi: ieri operaio e rivoluzionario e oggi dall’altra parte della scrivania? sono sempre lo stesso, e quella scrivania ho rinunciato, e mi è costato e non puoi sapere quanto… ciao

  4. Carissimo Remo, a mia volta ti leggo (per caso) solo ora. Lieto di leggere che tu sei sempre lo stesso. Mi viene quasi da pensare, sorridendo, ma non è che stiamo diventando, con l’età che s’avanza, conservatori, legati appunto ai noi stessi che volevano un cambiamento ormai in realtà non più attuale mentre il mondo cammina verso traguardi nuovi, per un cambiamento del tutto diverso da quello che noi non abbiamo saputo attuare?

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