Così, quando un giorno vagando senza meta precisa nella bassa, piatta, calda, afosa, sconfinata pianura padana cavalcando la Fiat Panda, finestrini cementati, aria condizionata a balla per non crollare davanti all’assalto di 40 ladroni pellerossa coi colori della calura dell’inferno vediamo quel cartello di bianco e blu dipinto, le corna e il teschio d’un bisonte di nome Bue a terra vicino al palo, che ci dice segui la direzione e arriverai a Roncole Verdi. Il paese, assiso nella bassa parmense, a due passi da Grande Placido Fiume, dove è nato quel tipo famoso, forse un direttore d’orchestra o forse uno che comunque aveva la fissa della musica e forse chissà, suonava il piano. Misteri che magari visitando la di lui magione natia potrebbero trovare compiuta soluzione. Così s’indirizza la Panda nella giusta direzione fino ad arrivare in un paesello piccolo piccolo, quattro case e poco più, il campanile con la chiesa annessa, l’immancabile osteria e l’inevitabile fermata della corriera. Si trova da parcheggiare in una via secondaria, poco dopo la casa del Maestro rinomato musicista, si dice specie di rock star dell’800. Parcheggiamo dunque nel piazzale di lato alla Casa del Popolo, ricordo di tempi ormai lontani, di preti in veste nera e di Sindaci coi baffi, senza cravatta ma il fazzoletto rosso al collo.
Tempi lontani e difatti quella Casa oggi ospita un ristorante da tenere in considerazione. L’ora del mezzodì, dei tortelli – quelli però senza coda e senza ricotta -, del prosciutto crudo di Langhirano e d’un pizzico di gustoso grana s’avvicina ma prima optiamo per la visita alla casa del Maestro che si trova al finire della via, un cento metri da affrontare sotto l’imperversare del sol caliente coi raggi che sembrano fulmini di fuoco ardente che zompano sulla cervicale e fan dar fuor di testa. Ma attenzione! Fatti cinquanta di quei cento metri, ecco l’incontro con la fatal sorpresa. Il gatto e la volpe? Ma no, che c’entra, qui Pinocchio c’azzecca poco e nulla. Semplicemente invece un altro cartello stavolta di fianco ad un cancelletto annuncia “Club dei Ventitré – Museo di Giovannino Guareschi“.
Che succede, abbiam sbagliato strada e ci ritroviamo a Brescello, tra Peppone e don Camillo? No, no, tranquillizza una signora che esce dalla casa-museo e spiega: proprio qui, tra queste case di piccolo paese un tempo luogo di pace e di beata solitudine, piccolo agglomerato all’epoca dimenticato da Dio e dagli uomini, viveva Giovannino e in questo che oggi è Museo stava lo studio dove l’emerito scrittore, monarchico convinto, riceveva i visitatori a fianco dei locali del ristorante acquistato per il figlio e da questo per trent’anni gestito con la moglie. “Vorreste visitarlo?” Le sembra, gentil donzella, domanda da fare? Certo che sì! Ed eccoci dunque tra tabelloni che ne ripercorrono la vita, il curriculum, le vicende di penna e quelle dietro (o di fianco) alla cinepresa.
Il soldatame durante la guerra, ma il rifiuto di combattere al fianco dei tedeschi con la R.S.I., il campo di concentramento e a seguire il giornalismo, la famiglia, la satira, i grandi scontri con i compagni del baffone dell’Est. Poi, tra tanti altri oggetti, il cavallo a dondolo. Ricordo della sua infanzia? NO, il fatto è che in quegli ormai lontani anni ’50 e ’60, spiega la signora, si gettava il superfluo per far spazio a cose nuove utili e necessarie, tutto in quelle case contadine era utile e funzionale e il resto o lo si riciclava a qualche vicino o lo si gettava. Giovannino no, Giovannino raccoglieva, teneva, conservava ed ecco il cavallo a dondolo che fu di chissà mai qual bambino.
Poi, finita la visita, la trappola: per arrivare all’uscita s’ha da attraversare l’ultima stanza dove son raccolte tutte le opere scritta da e su Giovannino. Compresa una serie di fumetti con i suoi racconti in formato Diabolik. E, qui, … casca il portafogli. Chissà se la banca lunedì concederà un mutuo a posteriori? Ma ne val ben la pena. Soddisfatti, essendo ormai l’ora tarda, siam tornati al ristorante a mangiar parmigiano bevendo del buon vino d’accompagno. Manca solo la puntata alla casa in fondo alla via, la casa del Maestro, la casa di Giuseppino. Che è chiusa per pausa pranzo, bisogna aspettare per più d’un ora. Sotto un sole che brucia, che scotta in assenza d’adeguata crema solare, che inebetisce, che intontisce e in attesa che i potenti, quelli che fan la guerra stando al chiuso dei loro comodi castelli col condizionatore a manetta, ‘make the earth cool again‘, un Giovannino basta e avanza, Giuseppino aspetterà! Rapido retromarcia, s’arranca fino alla Panda per fortuna ancora all’ombra. S’attacca il condizionamento in barba a quel tizio che ci vuol disidratati, ritroviamo frescura e adeguato respiro e partiamo di gran lena sulle stradelle della bassa, piatta, sconfinata pianura padana, costeggiando quel nostro Grande Placido Fiume che par ridotto ad un misero rivolo con vecchie barche di pescatori affondate da anni, mezzo avvolte dalla fanghiglia ma che quella poc’acqua rimasta lascia con la prua tornar all’onor del mondo. Partiamo dunque ma chi è quell’uomo con cappello che lentamente guida una vecchia moto sbuffante, non si sposta dal centro della stradella, ci impedisce di passare col rischio che il sol cocente riscaldi la Panda e ci cuoccia come una frittella con tanto di salamella?