“Al can dal Diavùl”, racconto di Claudio Arzani

Passeggiavo con lui, my doggy, Akira, incrocio tra mamma setter di probabili facili costumi e padre ignoto, sospettato un pastore belga in occasionale passaggio al canile municipale. Lungo il tratto della statale ormai abbandonato da anni a favore di una percorso più adatto alle corse domenicali di centauri in vena di emulare i vari Valentino Rossi, non sempre soppesando nella giusta misura i rischi annessi e connessi. Da poco avevamo superato il cimitero realizzato sul declivio della collina, un paio di chilometri prima del paese, i defunti rivolti verso il fondo valle, a salutare e dialogare col fiume che, della valle, da sempre era centro della vita. Un legame indissolubile, tra valligiani e l’acqua azzurra che scorre lungo un percorso sinuoso molto suggestivo, ricorda l’ondulante movimento delle anguille. Me li immaginavo, tutti quei morti, ad uscire dai loculi nelle notti di luna piena, giocare a carte, far quattro chiacchiere cullati dal lento ma giocoso scorrere dell’acque e dall’ululato lontano di qualche lupo tornato a popolare i boschi dell’appennino. Ammiravo un gruppo di storni tranquilli tra i rami delle piante in zona di golena e più in basso, appunto ad altezza fiume, tre splendidi aironi bianchi volteggiare tranquillamente da una riva all’altra. La vista, passando oltre la torre campanaria del paese nascosto tra le frasche che ci separavano dalle prime case, si perdeva sulle alture appenniniche che rappresentavano l’alta valle e proprio da lì, improvvisamente, scavalcando le cime, balzò feroce quel cane, al can dal Diavùl. Le zampe protese, le unghie letteralmente sguainate come spade affilate, un ringhio feroce che sembrava tuono, le zanne sinistramente bianche sulle quali si frangeva e si spegneva la luce di un raggio di sole, l’ultimo raggio del sole che muore, le orecchie tese, occhi infuocati, non lasciò scampo alcuno. Balzò sull’azzurro cielo e ne fece sol boccone senza pietà alcuna. In breve, con l’azzurro agonizzante, montò rapido implacabile il nero, tutto fu oscuro, parve d’entrare nel mondo fatto di buio, il Regno del dolore, il Regno senza speranza. Gli aironi sparirono tra le frasche sperando invano in un rifugio, gli storni s’alzarono in volo fuggendo in stormo vociante, due enormi ratti (parevano marmotte) dalla lunga coda e dal pelo grigio scuro attraversarono la strada senza nemmeno guardarci, Akira abbaiò come un forsennato ma i due ratti entrarono rapidamente tra l’erba alta del vicino campo a foraggio, scavalcando il corpo d’una volpe dal pelo arancione con la testa spappolata dall’impietosa pallottola d’un cacciatore senza pietà. Un vento freddo spazzò le tombe del cimitero, creando mulinelli di foglie, vecchi gambi di plastica lasciati giusto per creanza da lontani parenti e rari petali di fiori che furon freschi ormai secchi rinsecchiti strappati dai vasi. Una bianca capretta, forse scampata alla ‘pulizia etnica’ decretata qualche tempo prima dalla municipalità che aveva disposto la caccia e lo sterminio delle sue oltre cinquanta consimili viventi allo stato brado libere anarchiche tra colline e balzi delle prime cime appenniniche brucando l’erba dei campi contadini senza alcun rispetto di limiti, confini e legittima proprietà privata. Quella capretta, tremante, terrorizzata, balzò fuori dal loculo ancora libero dai morti dove s’era rifugiata e, belando disperatamente, uscì di corsa dai cancelli del cimitero. Akira le abbaiò forsennatamente ma venne ignorato. Un vaso mal collocato cadde andando in frantumi e la terra, sparsa sulla tomba, venne afferrata dal vento unendosi al mulinello di foglie e petali di rose fresche che l’amante aveva lasciato a ricordo del compianto bene amato in clandestinità, deponendoli senza che la legittima consorte, nonostante appostamenti con tanto di robusta verga da utilizzare alla bisogna sulla schiena della fedifraga, fosse mai riuscita ad identificarla. Anche sulla strada il vento imperversò sollevando nubi di polvere che entravano negli occhi e sulle labbra umide con notevole disagio sia da parte mia che di doggy. Un uomo in bicicletta, vecchio medico in pensione, passò pedalando forsennatamente mancando per un nonnulla di investirci. Akira guaì, mi guardò cercando salvezza e protezione. Gridai a quell’uomo di fare attenzione, perdiana, ma era già sparito oltre la curva e comunque il vento disperdeva la mia voce e la polvere mulinante m’entrò in gola facendomi tossire forsennatamente. Akira, guardandomi, abbaiò. Ma che potevo fare io, contro quel maledetto can dal Diavùl? Tornare rapidamente sui nostri passi, mentre il nero del cielo muoveva roteando minaccioso, assumendo forme minacciose, quasi volesse allungare sataniche braccia nere, afferrarci, strapparci alla terra, trasportarci lassù, dove il nero è nero, più nero del nero dipinto d’oscuro, tipo fondo del pozzo più fondo del fondo. Col cuore che accelerava i suoi battiti e bastardi sassolini che entravano tra il piede e il plantare dei sandali monacali (invisi per evidenti motivi sia al Diavùl che al so can) accelerai al cader dei primi pesanti goccioloni. Blu scuri, blu tenebra. Arrivammo all’auto appena in tempo. Al can dal Diavùl, ormai nascosto dal nero che incombeva ovunque, che copriva le cime appenniniche alla vista, lanciando latrati agghiaccianti che parevano spezzare il mondo e facevano luce, chiamò a raccolta demoni e angeli dannati e tutti accolsero il suo invito urinando con gran goduria sulla valle. Proprio come mi raccontava mia nonna quando ero bambino e sulla campagna si scatenava il temporale ed io sinceramente di bagnarmi con quell’urina non ci pensavo proprio, mi faceva un pò senso ma per fortuna la nonna aveva un buon adeguato numero d’ombrelli protettivi. Al riparo con Akira nell’abitacolo dell’auto mi lascia sfuggire un sonoro “can dal Diavùl? Ma va cagher!”. Akira abbaiò a sua volta. Accesi il motore e ce n’andammo a gran velocità ignorando le chiome delle piante circondanti la strada che parevano volerci afferrare. In breve raggiungemmo lestamente la galleria che separava l’alta dalla media valle. Due mondi. Infatti oltre la galleria al can dal Diavùl non arrivava, aveva esaurito il suo slancio, non riusciva a superare quell’altura che gli si era posta di fronte. Il cielo era azzurro come sempre e tale sarebbe rimasto. Anzi, si stava organizzando, rafforzando e presto avrebbe lui, superato quell’altura. Quota 280 metri sul livello del mare, la Linea Maginot difesa dall’esercito del cielo azzurro, i Legionari del Cielo. Consultando attraverso il cellulare via internet il bollettino meteo appresi che presto tutto il cielo si sarebbe ricomposto, avrebbe ripreso possesso dei suoi possedimenti, cacciato a pedate nel sedere al Diavùll’ so can, al can dal Diavùl. Il sole redivivo s’affacciò con un largo sorriso, illuminò la nostra auto. Belzebù ancora una volta scornato, la bianca capretta tornò a rifugiarsi nel loculo vuoto del cimitero, tornarono gli storni, ripresero i voli i bianchi aironi. Un minimo d’attesa e presto anche noi, io e my doggy, Akira, saremmo tornati a passeggiare su quel tratto di statale da anni abbandonato!

Pubblicato da arzyncampo

14 febbraio 1954, bassa pianura emiliana, Fiorenzuola d'Arda, quell'era le debut. Oggi vivo e lavoro a Piacenza. Giornalista pubblicista, il destino ha voluto mi impegnassi in tuttaltro campo, al servizio dei cittadini nella sanità pubblica. Tuttavia scrivere, per me, é vitale, divertente, essenziale, un mezzo per esprimere la mia presenza nel mondo e dir la mia. Così dal giornalismo sono passato, per passione e non per lavoro, alla poesia, alla narrativa, ai resoconti, agli appunti ovunque e su tutto, fino alla scoperta del blog. Basta scrivere, appunto, per dire di aver qualcosa da dire alla gente di questo nostro mondo. Fin quando avrò una penna, ci sarò.

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