“9 giorni di pace rubata”, romanzo di Pavic Genovese, Officine Gutenberg editore, 2016

Ogni volta che si affronta la lettura di un romanzo occorre in primo luogo entrare nello spirito, nel senso dello stesso. Per farlo occorre anzitutto conoscere l’autore, immedesimarsi con la sua esperienza e il punto d’arrivo nella sua vita che si propone mentre scrive il romanzo. In questo caso Pavic (Paolo Vincenzo) Genovese, architetto, professore d’architettura, scrittore di nove libri dedicati all’architettura, viaggiatore, fotografo, origini romane, risulta iscritto all’Ordine degli architetti di Piacenza con residenza a Borgonovo Val Tidone ma che, da 18 anni, vive, lavora, insegna in Cina. Apparentemente pochi dunque i rapporti con la letteratura e in particolare la narrativa d’intrattenimento ma invece eccolo, nel 2016, proporci questo libretto (111 pagine) che definire anomalo e divertente rende solo parzialmente onore alla trama. Innanzitutto chiariamo subito: l’autore ci prende per mano e ci trascina in epoche andate. Il Generale Ottaviano, protagonista, rappresenta personaggio di fedi incrollabili, di completa devozione a cause “salde, chiare e senza compromessi“. Generale dei corazzieri in servizio (mentalmente) permanente ed effettivo nonostante il settant’anni suonati, antenati prussiani, convive con una cameriera, Aida, esempio di oggettiva bruttezza, perfetto opposto di grazia e soavità, dotata di un solo vestito indubbiamente confezionato da un sarto a dir poco geniale che di fatto le permette di non cambiarsi mai eppure di essere sempre pulitissima. L’esatto opposto di Clodette che ha saputo conquistare il cuore del Generale. Mai un rammarico tra i due, mai un litigio o la parvenza di un malinteso. Niente altro che amore puro, da parte del nostro settantenne, anni di pura devozione. Clodette vive nella stanza limitrofa ove Sua Eccellenza riposa, libera di fare ciò che vuole, nessun suo capriccio rimane inevaso. Dunque, indecorosa amante? Simpatica e birbantella nipotina? Niente di tutto questo ma, per scoprire l’essere di Clodette occorre rinviare alla lettura del romanzo preannunciando la sorpresa e il sorriso. A completare il quadretto familiare, ecco il nipote Orazio, sempliciotto, mente confusa capace di creare catastrofi inimmaginabili, giunto ai trent’anni senza lode e senza infamia ma cresciuto dallo zio con grande severità: a cinque anni, per esempio, eccolo cacciato di casa per una settimana sotto piogge torrenziali e freddi lancinanti per il solo fatto di aver fatto un pò il capriccioso nello studiare. Cervello nebuloso ed accartocciato, si diceva, ma un unico pregio: bello, meravigliosamente bello. Definito il quadro dei protagonisti, ecco che Pavic (l’autore, ovvero Paolo Vincenzo all’anagrafe) propone l’arrivo di una lettera. Firmata da tal Piccarda di Montesanto che chiede al suo ammiratissimo Generale di salvarla. Creando un attimo di smarrimento: il Generale naturalmente ricorda benissimo i nomi di tutti i suoi commilitoni, i compagni di carica di cavalleria, ma dei nomi di donna lo si scopre invece un pò debole essendo l’universo femminile qualcosa di non virile, un fronzolo civettuolo da non appuntare certo alla corazza d’acciaio lucente. Comunque alla fine il dado è tratto, zio e nipote partono in treno per la salvezza della gentil dama, passando per la bella Venezia (dove Ottavio si perde e vive una sgradevole avventura), destinazione Berlino. Qui mi fermo, lasciando al lettore il piacere di scoprire le tante divertentissime situazioni paradossali che vivono i due protagonisti fino all’ultima pagina. Ma ritornando al quesito iniziale, quale sarebbe il senso del libro? Forse il dipingere di quanto una vita affrontata con eccessiva severità (potremmo dire con logica “militaresca“) possa essere assurda, al punto che con una sana risata alla fine si vive meglio.

Pubblicato da arzyncampo

14 febbraio 1954, bassa pianura emiliana, Fiorenzuola d'Arda, quell'era le debut. Oggi vivo e lavoro a Piacenza. Giornalista pubblicista, il destino ha voluto mi impegnassi in tuttaltro campo, al servizio dei cittadini nella sanità pubblica. Tuttavia scrivere, per me, é vitale, divertente, essenziale, un mezzo per esprimere la mia presenza nel mondo e dir la mia. Così dal giornalismo sono passato, per passione e non per lavoro, alla poesia, alla narrativa, ai resoconti, agli appunti ovunque e su tutto, fino alla scoperta del blog. Basta scrivere, appunto, per dire di aver qualcosa da dire alla gente di questo nostro mondo. Fin quando avrò una penna, ci sarò.

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