1917: Oltre 6mila profughi nel piacentino, “In fuga dalla guerra”, la mostra a Palazzo Farnese fino al 20 dicembre

La mostra, allestita nel corridoio dell’Archivio di Stato , al 2° piano di Palazzo Farnese, presenta una serie di pannelli che illustrano la realtà delle province emiliane

Nel sacrario di Sant’Antonio, a Caporetto, riposano in pace 7014 soldati italiani, vittime della disfatta del lontano novembre 1917 quando le truppe del Regio Esercito furono costrette ad una rovinosa ritirata fino al fiume Piave. Oggi Caporetto si trova oltre il confine tra Italia e Slovenia ed è mèta di un turismo ‘storico’ poiché il nome stesso del paese è sinonimo di disfatta: all’alba del 24 ottobre 1917 tonnellate di gas tossici e proiettili di artiglieria iniziarono a cadere sulle linee avanzate difese dall’esercito italiano. Nelle ore immediatamente successive migliaia di soldati austriaci e tedeschi attaccarono nella breccia aperta nello schieramento italiano. Dopo una giornata di combattimenti, i generali italiani ordinarono alle loro truppe di ripiegare. La ritirata si sarebbe fermata soltanto quattro settimane dopo, sulla famosa linea del Piave. Quarantamila soldati italiani furono uccisi o feriti e altri 365 mila furono fatti prigionieri.

Gli austriaci dunque penetrarono nel territorio italiano in Friuli e nel Veneto per più di 70 chilometri oltre i confini, un’enormità se si pensa che durante la Grande Guerra ci volevano settimane per conquistare qualche centinaio di metri, e questo rappresentò una vera catastrofe in termini sia militari che civili.

La famiglia Giobatta, proveniente dalla Valsugana, trova accoglienza a Bettola

I primi civili, spaesati e impauriti, se n’andarono da Cividale e da San Pietro al Natisone la mattina del 25 ottobre 1917, diretti verso Udine. Una decisione improvvisa presa quando alcuni soldati di passaggio avevano raccontato loro, con terrore, ciò che stava accadendo lungo il vicino fronte. Meglio la fuga quindi piuttosto che aspettare torme di tedeschi e di austro-ungarici pronti a saccheggiare le case, devastare le  terre, violentare donne, bambini e, come sarebbe effettivamente stato, preti.

Profughi che, per sopravvivere alla fame stante l’eseguità del sussidio, devono lavorare

Di fronte a questa minaccia, chi poteva aveva perciò deciso di raccattare le proprie cose e mettersi in cammino; si era mescolato alle lacere truppe in ritirata dal fronte, occupando le già ingombre strade. Dopo di loro, tra il 27 e il 28 ottobre molti abitanti di Udine, di Pordenone e di diversi paesini della Carnia fecero i bagagli in fretta e furia e abbandonarono le proprie case, chi a piedi, chi a bordo di carri, qualcuno con il treno, alla ricerca di un rifugio sicuro altrove. Meglio se al di là del Tagliamento. Insomma, tutti in rapida fuga per salvare la pelle: il sindaco e il prefetto di Udine, il deputato Giuseppe Girardini, l’arcivescovo  Antonio Anastasio Rossi (mentre molti preti sceglievano di restare con i loro parrocchiani subendo, in alcuni casi, la bestialità di violentatori austriaci) e naturalmente, mentre i soldati morivano, il generale Luigi Cadorna e il parigrado Carlo Porro che lasciarono Udine per Treviso e successivamente per Padova.

Iniziative di sostenzamento e di solidarietà

In pochissimi giorni diverse centinaia di migliaia di persone lasciarono dunque le province friulane e venete per riparare in altre regioni d’Italia; coloro che invece in quei territori, occupati e non, avevano deciso di restare, lo avevano fatto per i motivi più diversi ma tutti, indistintamente, venivano definiti dall’opinione pubblica, con spregio, «austriacanti», collaboratori della tirannia straniera. Alla fine si conteranno oltre 630mila profughi civili provenienti dalle province di Udine, Belluno, Treviso, Venezia, Vicenza, trentini, triestini, goriziani, istriani, fiumani e dalmati. Donne, bambini, talvolta anche gli anziani e gli invalidi poiché gli uomini, se abili, erano stati richiamati al fronte: a bordo di treni venivano inviati dal ministero dell’Interno in regioni lontane dalla guerra come la Lombardia, l’Emilia Romagna, il Piemonte, la Campania, la Sicilia, la Calabria. Poco più di 6mila di loro furono destinati nei comuni del piacentino.

Alloggiati in alberghi requisiti dai prefetti su ordine del ministero (fatto, questo, che suscitava lo scontento dei proprietari una volta arrivata la stagione estiva), all’interno di strutture religiose e in case sfitte, potevano contare su un sussidio giornaliero di una lira e 25 centesimi anticipato dai comuni. Tuttavia per vivere, per mangiare, per vestirsi, il sussidio non bastava e allora per molti di loro era necessario trovare un lavoro, perdendo però, così facendo, l’aiuto statale.

Inizialmente circondati dalla solidarietà della gente locale, i profughi avevano dovuto poi fare i conti con la diffidenza: un sentimento aspro divenuto col tempo pregiudizio, e infine aperta ostilità. Dalla prima metà del 1919 mezzo milione di loro poté fare ritorno ai propri paesi, alle proprie case, quando queste non fossero state distrutte dai bombardamenti. Ma in quel momento, in quei luoghi, un altro conflitto era appena scoppiato: quello contro i «rimasti» nei territori invasi, considerati dalla propaganda post bellica la «feccia della popolazione». Per la loro scelta, al tempo definita vigliacca e traditrice, vennero esclusi dall’assistenza, da tutti gli incarichi comunali e dalla possibilità di riutilizzare i tanti fabbricati dismessi.

Archivio di Stato, “In fuga dalla guerra. I profughi della Grande Guerra in Emilia Romagna” Orari della mostra: lunedì-venerdì 9,00 – 13,30 e mercoledì-giovedì 9,00 – 17,00. Ingresso libero e gratuito

 

Pubblicato da arzyncampo

14 febbraio 1954, bassa pianura emiliana, Fiorenzuola d'Arda, quell'era le debut. Oggi vivo e lavoro a Piacenza. Giornalista pubblicista, il destino ha voluto mi impegnassi in tuttaltro campo, al servizio dei cittadini nella sanità pubblica. Tuttavia scrivere, per me, é vitale, divertente, essenziale, un mezzo per esprimere la mia presenza nel mondo e dir la mia. Così dal giornalismo sono passato, per passione e non per lavoro, alla poesia, alla narrativa, ai resoconti, agli appunti ovunque e su tutto, fino alla scoperta del blog. Basta scrivere, appunto, per dire di aver qualcosa da dire alla gente di questo nostro mondo. Fin quando avrò una penna, ci sarò.

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