“”No, non dite nulla della Russia, degli italiani e dei tedeschi”, di Nuto Revelli (proposto in fb da Italiani Brava Gente)

Foto proposte in facebook da ‘Italiani Brava Gente’

Ricordo esattamente quando ho capito tutto: il pomeriggio del 20 gennaio, dopo due tre giorni di ritirata. Nel pomeriggio c’era ancora un pò di luce, la mia colonna era ferma sulla piana di Postoialy in attesa di ordini. Il reparto aveva un centinaio di uomini recuperabili. Il comando del corpo d’armata, con il generale Nasci, aveva perso ogni contatto con la Cuneense e la Julia poiché non c’era più una sola radio funzionante, non sapeva in che direzione farci andare. Eravamo fermi, con 8.000 tedeschi sbandati e altrettanti ungheresi. Formavamo una scia nera lunga chilometri e larga 70 metri. In quella situazione, quasi buio, è arrivato un aereo sovietico a mitragliare. Vedevo uomini, soldati che saltavano in aria. Ricordo che i miei alpini avevano appena acceso un fuoco con della paglia. C’erano 25 gradi sottozero. In quel momento ero lì con due colleghi, ci siamo guardati in faccia e ci siamo detti: “Madonna santa, qui è la fine“. E ho pensato: “Non credo più in niente“. Ho maledetto la monarchia, il fascismo, i generali, la guerra.

Ricordare per non ricaderci: fu Benito Mussolini in persona a decidere, per fame di potere, l’intervento in una guerra inutile contro gente che non c’aveva fatto nulla. Partirono 200mila ragazzi. 100mila non fecero ritorno. Morti ammazzati. Tanti morti semplicemente congelati. Tanti tornarono con gravissime mutilazioni.

Ho capito tutto, ho avuto la percezione di essere uscito totalmente dalla mia ignoranza iniziale. Però era tardi. Infatti, da allora in poi,  mischiato in questa colonna rumorosa dove c’era chi vaneggiava, chi parlava da solo, chi si agitava per scaldarsi, ho cominciato a dire la mia. La memoria visiva mi fa rivedere il volto delle persone, e quel fuoco di paglia che venne spento in fretta e furia all’arrivo dell’aereo sovietico.

Quel collega che mi diceva “Chissà se a Roma sanno“. Ma cosa vuoi che sappiano, a Roma ci hanno già dimenticato. Me lo sono detto tante volte dopo questo episodio: se esco vivo di qui lascio l’esercito. Non sopportavo più la divisa, gli ordini, s’era rotto qualcosa. Guardavo la popolazione durante quelle marce: la guardavo con il rimorso di aver partecipato a quella guerra sbagliata e poi la guardavo con tenerezza, una popolazione fatta quasi tutta di anziani. Mi aggrappavo a quel mondo, il mondo della popolazione civile, perchè vedevo in esso uno spiraglio di pace e forse vedevo anche la mia famiglia. Quando siamo arrivati a Slobin siamo stati tre o quattro giorni in una casa non povera dove c’era un vecchio che mi ricordava tanto mio padre: un uomo alto, severo, con due bambini sui cinque anni. C’erano due o tre stanze e a noi ne avevano assegnata una, eravamo in 3. Loro vivevano da soli. Ho cercato di avere un dialogo con il vecchio, usando quelle poche parole di russo che avevo imparato. Noi eravamo molto gentili, però lui ci faceva capire che ci sopportava, ma ognuno doveva stare al suo posto: Allora ci siamo messi a cantare, cercando di coinvolgere i bambini. Il vecchio li ha portati via. Dopo un pò però dall’altra stanza è arrivato l’eco del loro canto.

Io mi aggrappavo a queste cose. Il mio generale aveva fatto un volantino con sù scritto “Ricordare e raccontare”, ma appena arrivati in Italia non facevano che ripeterci: “No, non dite niente della Russia, degli italiani e dei tedeschi“.

Pubblicato da arzyncampo

14 febbraio 1954, bassa pianura emiliana, Fiorenzuola d'Arda, quell'era le debut. Oggi vivo e lavoro a Piacenza. Giornalista pubblicista, il destino ha voluto mi impegnassi in tuttaltro campo, al servizio dei cittadini nella sanità pubblica. Tuttavia scrivere, per me, é vitale, divertente, essenziale, un mezzo per esprimere la mia presenza nel mondo e dir la mia. Così dal giornalismo sono passato, per passione e non per lavoro, alla poesia, alla narrativa, ai resoconti, agli appunti ovunque e su tutto, fino alla scoperta del blog. Basta scrivere, appunto, per dire di aver qualcosa da dire alla gente di questo nostro mondo. Fin quando avrò una penna, ci sarò.

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