Italiani brava gente? Si provi a domandarlo agli etiopi che videro le truppe italiane varcare i confini senza nemmeno una dichiarazione di guerra, segno di una supponenza e di una tracotanza che basava su una forma di razzismo senza limiti. Un razzismo che avrebbe giustificato nefandezze sul campo che possiamo definire veri e propri ‘crimini di guerra‘. Decimazioni, fucilazioni di civili, interi villaggi dati alle fiamme, impiego di gas, nessun rispetto per quella che era una grande civiltà. Martha Nasibù, all’epoca poco più d’una bambina, con questo suo diario ci racconta del palazzo, il Ghebì, del nobile suo padre Nasibù Zamanuel che svettava sontuoso nel centro di Addis Abeba. Circondato da un parco di cinquantamila metri, con alberi di alto fusto e piante ornamentali fatte giungere da ogni parte del mondo, il Ghebì era composto da un’infinità di camere, elegantemente arredate con mobili in stile Luigi XVI e Chippendale, porcellane di Sèvre, immensi arazzi di Beauvais. Ottanta maggiordomi, domestici, cuochi e giardinieri provvedevano alla cura della casa, sotto lo sguardo vigile del degiac Nasibù, bello come un dio con i suoi 185 centimetri di statura, il fisico da atleta, il volto attraente e sereno, le sgargianti divise da generale. Nella vita del degiac, tutto sembra tingersi di prodigioso e fiabesco, fino al matrimonio con la giovanissima Atzede Mariam Babitcheff dopo una gara sfrenata nell’ippodromo di Janehoj-meda alla presenza del reggente, ras Tafari Maconnen. Un giorno di ottobre del 1935, tuttavia, la bella fiaba termina bruscamente. Per ordine di Benito Mussolini, le forze armate italiane invadono l’Etiopia da nord al sud. Il degiac Nasibù combatte valorosamente per difendere la sua terra e la sua civiltà, quell’antica civiltà coptortodossa che fa dell’Etiopia una terra cristiana nel cuore dell’Africa. Le forze sono però troppo impari, anche grazie alla complicità di Francia e Inghilterra che bloccano la vendita di armi agli etiopi e al silenzio della Società delle Nazioni che ignora le denunce e le richieste di aiuto. Così il conflitto segna nel sangue la fine dell’Impero d’Etiopia e dello splendore dei Nasibù. Il 21 giugno del 1936, è arrestato Ivan Babitcheff, nobile d’origini russe, suocero di Nasibù. Il 19 ottobre, il degiac, con i polmoni stroncati e devastati dai gas italiani, si spegne in una clinica di Davos, in Svizzera, senza poter salutare moglie e figli. Nei mesi successivi tutti i Nasibù sono costretti all’esilio. A più di sessant’anni dagli avvenimenti, Martha Nasibù, figlia del degiac Nasibù, racconta l’incredibile vicenda della sua famiglia condotta in Italia sul finire del 1936 e mantenuta in cattività sino all’agosto del 1944. Otto anni di esilio nei luoghi di «villeggiatura» di Mussolini. Otto anni di esilio per la sola colpa di essere moglie e figli del degiac Nasibù Zamanuel, che si era comportato in guerra con estremo valore e correttezza, non certo ricambiata dal «viceré» Rodolfo Graziani, l’uomo (ma sarrebbe più preciso definirlo ‘la bestia immonda’) che senza pietà, senza umanità, ordinò l’uso dei gas eseguendo le disposizioni di quell’altro, il Duce, nel silenzio del Re. Italiani brava gente? Non certo quelli in camicia nera. Ma comunque, tornando allo sviluppo del racconto dei fatti, la guerra finisce, il Duce paga il fio delle sue malefatte e dei suoi crimini, Martha torna libera con la sua famiglia. Torna festeggiatissima nella sua patria e finalmente vive quella vita in pace alla quale tutti, a prescindere dal colore della pelle, dovremmo aver diritto. Ed oggi, felice, si ritrova non più solo sposa e madre ma eccola impegnata, come conclude il suo racconto, a crescere i nipoti mentre la sua Etiopia, finalmente conclusa la guerra con l’Eritrea, respira finalmente l’aria di pace.