Lettera al compagno Gianfranco caduto nella lotta clandestina, di Aldo Braibanti, anno 1945

La nota di Ferruccio Braibanti, nipote di Aldo,
al Direttore di Libertà, quotidiano di Piacenza

Egregio Direttore, le invio una lunga lettera scritta da mio zio Aldo nel 1945 al suo compagno di lotta Gianfranco Sarfatti, ucciso dai fascisti in Val d’Aosta il 21 febbraio di quell’anno.
Indubbiamente il mio giudizio è inficiato sia dal profondo affetto per lo zio che dalle contingenze della sua scomparsa, ma credo di essere oggettivo nel ritenere la lettera non solo molto bella, ma anche una testimonianza importante della vera essenza della Resistenza.
Sarà lei a giudicare se è utile portarla a conoscenza del grande pubblico piacentino.

La nota introduttiva della redazione del Quotidiano
A seguire pubblichiamo il testo integrale della lettera scritta da Aldo Braibanti, morto lo scorso 6 aprile nella sua casa di Castellarquato all’età di 91 anni. Filosofo ed eclettica figura del Novecento era diventato improvvisamente famoso per un clamoroso, e unico, caso giudiziario che aveva acceso l’opinione pubblica: un processo inserito in un clima di forti contrapposizioni politiche pre-contestazione (1967-68). Braibanti è stato anche organizzatore del Fronte della Gioventù e fu arrestato e torturato dalle S. S. e dalla Banda Carità.
Aldo Braibanti, classe 1922, scrittore, sceneggiatore, partigiano e poeta, ci ha lasciati lo scorso 6 aprile
La lettera scritta da Aldo Braibanti nel 1945
Ora Tu sei morto, Gianfranco. Una lettera dignitosa, un poco affrettata mi fu gettata sul tavolo con rude semplicità. Con Te è morto tutto un mio mondo, un dolce appoggio per l’asprezza del viaggio.
Debbo dunque rivedere i miei programmi? Perchè, vedi, in molti di essi tu eri ancora il mio compagno di viaggio, come lo fosti ieri, come lo sei stato per me fino al momento in cui è stata la tua ultima notizia. La nostra vita comune nella lotta comune è stata sempre tumultuosa, veloce, arida in apparenza, e senza smarrimenti improvvisi.
Questa era la dura legge della lotta clandestina: essere sempre di fianco e non di fronte l’uno all’altro. Ma tu sai — e solo ora ci è possibile dirlo — noi ascoltavamo il battito comune del nostro cuore nell’ansia delle cose e degli uomini intorno.
Tu mi donasti un libro, e il libro è aperto, e segna la pagina un tuo disegno — un teschio, una tibia, un tamburo un’arpa, un gatto. — Sapientemente scorrono le dita sui versi noti, ed evocano immagini illusorie, come allora, nella bianca allucinazione della putrida cella:

J’ai souvent évoqué cette lune enchantée, Ce silente et cette longueur,
Et certe confidente horrible chuchotée Au condessional du coetif.

Ma è solo il languido sussurrare disperato che resta di questi versi?

La natura est un tempie où des vivants piliers….

Nelle camere di «Villa Triste» mi dìvertivo, a ripetere queste parole e il ritmo mi leniva la carne e mi staccava dai miei persecutori, più di me agitati e scomposti, più di me forse disperati e senza scampo. E anche la tua effige, Gianfranco mi ritornava serena e incoraggiante, bonariamente ironica, se le labbra sanguinose balbettavano quei versi che ti erano cari.
Non abbiamo mai parlato d’amore: non avevamo tempo. E solo qualche volta intravedevo in te degli spiragli teneri, forse il rimpianto di qualche fanciulla, forse la nostalgia di colei che ancora si cerca. Il tempo tiranno e ipocrita ci rivestiva come di un pudore ingrato, per tutto quello che potesse sembrare riposo, abbandono, distensione di cuori: e mascherava il tutto una facile ironia, trasparente come uno specchio d’acqua alpina.
Ma per qualche istante la scolta vigile sapeva dentro di noi concedere con materna generosità, e la vita sorrideva da queste feritoie, ricca, strabocchevole, eccessiva, forse per la nostra reciproca sopportazione.
Ti conobbi subito dopo il 25 luglio, quando la caduta del fascismo mi aveva appena aperto le porte della prigione. Alto, magro (gli occhiali erano parte vitale del tuo volto) ti riaffacciavi a quella Università che il marchio della razza ti aveva precluso. lo vivevo nell’euforia di chi per la prima volta gusta il valore della riconquistata libertà, fisica: i miei giorni erano febbrili, un poco vertiginosi, e mi inebriava il sapore delle nuovissime esperienze. Rigido, quasi compassato, ti affiancasti alla mia perpetua agitazione e mi recasti un senso concreto di equilibrio e di misura. E vi era allora un tavolo che ci univa ai nostri compagni. Wanda usciva allora dal suo bozzolo e già si prevedeva in lei la futura inesauribile lottatrice. Chicchi ci raccoglieva tutti a quel tavolo, e ci muoveva col dolce sguardo dei suoi grandi inflessibili occhi. Renzo cercava fantasmi artificiali persino sotto le carte assorbenti… Non basterebbe tutta una vita a narrare ed a raccogliere la somma di esperienze, di sentimenti, di creazioni di quel periodo breve e dei mesi immediatamente successivi.
Finalmente conosco la misura reale della lotta di ieri, me lo dice la tua morte, Gianfranco. Le nostre madri, la difesa dei deboli e degli affamati, il diritto alla vita e all’amore: questo voleva dire la nostra battaglia, e la posta non ammetteva tregue o rallentamenti. In tutti noi era lo stesso senso di rigida autodisciplina, maturato attraverso l’antico sforzo autocritico.
Già da molti anni il nostro antifascismo, germogliato prima nel chiuso dei nostri animi, era traboccato di fuori, e nella grigia e pesante monotonia della tragedia incipiente noi ci cercavamo, ci riconoscevamo a cenni segreti, il lampo di un occhio. Perchè misconoscere l’alto valore di questa severa educazione che rigenerava il più giovane sangue d’Italia? Perchè spostarlo noi stessi, sul piano della merce di scambio, annientarlo col miope gioco di parte? Il nostro comunismo aveva e ha questa semplicità delle cose universali, e il Fronte della Gioventù ha voluto dire per noi l’idea espressa, fatta cosa sensibile, il pane quotidiano che sazia la fame.
La calata degli Unni non fu una sorpresa per nessuno, ma non si resta indifferenti al colpo sia pure previsto. Quando la falsa libertà di Badoglio si sfasciò al primo urto, ognuno di noi era già al suo posto: il passaggio dalla semi-clandestinità alla clandestinità più assoluta voleva dire in un certo senso la fine di ogni compromesso.
Ricordi la stretta camera di via Ginori il 9 settembre ’43? Si udiva lo strepito dei carri tedeschi dalla vicina piazza San Marco. Emilio ci scrutava entrambi, e cercava quello che trovò: una decisione ostinata, ad ogni costo. Fu così che nacque quel comitato che si può chiamare l’origine del F. d. G.
Sandro, Aldo, attività militare; Emilio, Gianfranco, stampa e propaganda: mai si potrà superare una tale unità di spiriti e di intenti. E inutile qui ripetere le corse per la città coi carichi di stampa (uno di questi carichi mi sarebbe stato fatale) pure le visite alle nostre prime cellule giovanili, che attendevano quei carichi come in un nido i piccoli attendono l’imbeccata; oppure i colpi di mano nelle caserme fasciste per il trafugamento di quelle armi che andarono poi a raggiungere le primissime formazioni partigiane.
Vi era un tale entusiasmo in noi e nei nostri compagni, che a volte rasentava l’ingenuità: quelle piazze fiorentine, piene di grappoli indaffarati — e giovani indifferenti correvano da gruppo a gruppo — nella loro comica semplicità erano la nuova scuola, la grande palestra della nostra generazione. Non era il fascino infantile dell’avventura o del pericolo, ma una maturità pensosa superiore ai nostri giovani anni e tuttavia espressa colle forme dei nostri giovani anni. In fondo eravamo contenti: la fede era certezza, e per la prima volta nella nostra grigia e afosa giovinezza la vita era degna di essere vissuta. Non torneranno mai più la freschezza e la serenità di quei giorni, come di un primo amore.
E se qualcuno di noi cadeva, nè lagrime nè soste:

Ami, si tu tombes
Un ami sort de l’ombre
A ta place.

E non, vi era neppure odio, in noi, ma solo un irrigidirsi del volto, e poi avanti, verso altri rischi, verso altre cadute, verso la morte, verso la vita. (Perchè tanti giovani di oggi, critici fino al cinismo, schizzinosi e di complicata psicologia, non ebbero la buona sorte di affrontare una così efficace catarsi? Perchè le sofferenze degli operai, di tutti i veri antifascisti, non furono anche le loro sofferenze? Vendetta postuma del fascismo, impotente sì ma ancora pericolosa e infettiva: e contro di essa non si agisce dall’esterno, con mezzi coercitivi, ma dall’interno, col ridestare maieuticamente lo sforzo autocritico, unica garanzia di una reale democrazia).
E venne anche la mia seconda caduta, che per poco non travolse anche te. Tragica, appena sopportabile per le mie forze limitate, mi aperse tuttavia definitivamente gli occhi.
Compresi cosa volesse dire un compagno di meno: vi sentivo vicini e terribilmente lontani, vi vedevo imperturbati, chini sui vostri piani, raccolti nelle vostre corse. E spesso, mentre le guardie nere si affannavano sadicamente intorno al mio corpo, che mi era divenuto quasi estraneo, io fissavo la porta come se ad un tratto si dovesse aprire, spinta da voi, miei compagni, miei salvatori. E tu entri primo, Gianfranco, colla tua pistola a tamburo che da poco avevamo imparato a conoscere: ma presto, presto perchè, le forze mi lasciano, il sangue mi ubriaca, il cuore cede allo strazio dei fratelli di dolore, come me, più di me feriti, offesi, mostruosamente maciullati da inconsapevole bestialità.
Ma il miracolo non venne, se non si vuole chiamare miracolo l’avere rivisto le celle della prigione, gradito rifugio dopo i giorni di «ViIla triste» riposo desiderato come l’ultima salvezza. E non lunghi mesi di incertezza passiva, io vi seguivo nella vostra lotta, trepidavo per le vostre gesta, invidiavo i vostri pericoli.
Mia madre (sublime amore delle madri, superbo eroismo di lei che solo meriterebbe un poema) mi portava anche qualche tuo biglietto e tue notizie dirette.
Ma come raccontarti dall’ultimo giorno che noi ci vedemmo? Le veglie monotone della prigionia, rotte da qualche fosco sprazzo di terribile tragedia (le notti d’incubo nelle quali i condannati a morte attendevano l’ultimo mattino), l’ora Solitaria della liberazione (i bianchi capelli di mia madre sono legati al ricordo delle due liberazioni), il ritorno al mio posto di lotta (quel ciclostile nascosto sul tetto che alla fine col suo peso sfondò il soffitto) e poi la battaglia, la lotta armata finalmente, a viso, aperto. (Sacra alla memoria casa diroccata di via Cherubini).
Poi la vita nuova, il sorgere delle libere associazioni democratiche, le incertezze quotidiane, le delusioni, le speranze, la lettera, questa lettera che qui sul mio tavolo sembra un urlo in una notte deserta.

«Amato dai suoi uomini, coi quali condivise le durezze della, vita di montagna, esempio per il suo comportamento, vero comunista in ogni sua azione, seppe morire da eroe»
Febbraio – Fenis, Val d’Aosta

E come tu mi racconterai quello che ti avvenne dal nostro ultimo, incontro?
La morte nulla ha mutato: tu continui con noi la nostra battaglia. Ancora bisogna lavorare, duramente, senza abbandoni. E tu non sarai troppo severo con questo sfogo, il più lungo della nostra amicizia. Esso è anche un impegno: continuare il cammino anche da solo verso la meta, non cedere al canto di allettanti sirene, cercare la via stretta, guardare sempre avanti a sé. E forse nella fuga di qualche via fiorentina, tu silenziosamente ti affiancherai di nuovo al mio passo affrettato.
Io con la borsa nera; e nelle tasche di entrambi, stampe, armi, disegni.
E nella insistenza della visione forse si allungheranno due ombre sul marciapiede, su su contro il muro, si perderanno nel silenzio dell’ora, più grave.

Pubblicato da arzyncampo

14 febbraio 1954, bassa pianura emiliana, Fiorenzuola d'Arda, quell'era le debut. Oggi vivo e lavoro a Piacenza. Giornalista pubblicista, il destino ha voluto mi impegnassi in tuttaltro campo, al servizio dei cittadini nella sanità pubblica. Tuttavia scrivere, per me, é vitale, divertente, essenziale, un mezzo per esprimere la mia presenza nel mondo e dir la mia. Così dal giornalismo sono passato, per passione e non per lavoro, alla poesia, alla narrativa, ai resoconti, agli appunti ovunque e su tutto, fino alla scoperta del blog. Basta scrivere, appunto, per dire di aver qualcosa da dire alla gente di questo nostro mondo. Fin quando avrò una penna, ci sarò.

3 Risposte a “Lettera al compagno Gianfranco caduto nella lotta clandestina, di Aldo Braibanti, anno 1945”

  1. Bravi! Ma, c’è un refuso alla terza riga della lettera “mordo” invece di “MONDO” correggete grazie, ciao e buon lavoro

  2. anche alla 12° del secondo capoverso dopo le citazioni poetiche “la scolta” non so forse sono ignorante io, ma forse sarà “la scorta”? Non saprei …

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.