“Il Sessantotto è stata un’epopea, checché ne dica Mogol”, intervento di Carmelo Sciascia

I sessantottini?Un movimento autoreferenziale di figli di papà, con la spider posteggiata dietro l’angolo. Parola di Giulio Rapetti in arte Mogol, paroliere

Avevo scritto (leggi qui) che il ‘68 era terminato il 9 maggio 1978.  Forse mi sbagliavo, ma non di molto, un anno appena. Non è stata la prima volta e non sarà sicuramente l’ultima. Avevo intravisto la genesi della protesta del ‘68 nel movimento della beat generation americana del 1955 e la fine coincidente con l’assassinio di Aldo Moro: il 9 maggio del 1978. Sulla genesi rimango dell’avviso già espresso, per quanto riguarda la fine avrei da aggiungere qualcosa. Mi sono ricordato infatti del Festival Internazionale dei Poeti avvenuto a Castelporziano nel 1979 ed allora ho pensato che quell’asticella sarebbe dovuta essere spostata in avanti di un anno. Come la poesia della Six Gallery di San Francisco nel 1955 aveva dato inizio al grido di protesta della generazione che genericamente indichiamo come generazione del sessantotto, una generazione nata dalla contestazione della cultura bigotta e repressiva d’America, così si sarebbe potuto dire di un’altra manifestazione che ne avrebbe segnato la fine. Era successo che era crollato il palco, proprio nella manifestazione di quell’incontro sulla poesia del 1979, a Castelporziano. Un fatto avvenuto realmente, in questa Woodstock nostrana della poesia, ribadisco: il palco è veramente crollato, divenendo giocoforza rappresentazione simbolica della fine di un’epoca. Anche se spesso avviene l’opposto: l’elemento simbolico rappresenta concettualmente il fatto reale. A proposito di rimandi e coincidenze si deve dire che il Festival si era tenuto al lido di Ostia dove era stato cinque anni prima ucciso Pier Paolo Pasolini, una delle massime espressioni del 68 italiano, della contestazione politica e culturale del novecento tout court. Così come una delle più carismatiche presenze a San Francisco era stato nel 1955 Allen Ginsberg, lo stesso dicasi per il 1979 a Castelporziano, dove tra gli altri, era presente lo stesso Ginsberg: il suo “Urlo” iniziale aveva determinato la nascita del movimento, il suo “Mantra” in quel Festival del lontano ’79 ne aveva decretato la fine.

Il 1979, ventiquattro anni dopo, quasi il numero di anni perfetto che serve a caratterizzare una generazione, chiudeva un’epoca, un’epoca che era stata l’espressione della rivolta giovanile, un’epica epopea, quella del ’68, checché ne abbia detto un certo signor Giulio Rapetti in arte Mogol nell’incontro di giovedì, giorno cinque, in Fondazione, nell’ambito delle iniziative collaterali alla mostra di Lucas a Palazzo Pisaroni-Rota, dove il noto paroliere, rispondendo ad una domanda, ha dipinto un sessantotto solo come movimento autoreferenziale di figli di papà, con la spider posteggiata dietro l’angolo, che ripetevano all’infinito gli stessi slogan inneggianti addirittura a Ceausescu. Credo di poter sostenere a ragion veduta che la maggior parte dei giovani della mia generazione che a quel movimento ha partecipato, non era né figlio di papà né ha mai inneggiato ad un dittatore come Ceausescu. In questa nostra città, a volte triste, a volte vivace protagonista di iniziative culturali di respiro nazionale, di incontri strani se ne fanno per davvero, come pure sentire strane e fantasiose teorie (spacciate per reali osservazioni). Semmai va studiato ed analizzato come sia potuto accadere che una generazione, quella del sessantotto da protagonista, sia diventata in poco tempo una realtà marginale, una realtà chiusa ed avulsa dal resto della società stessa. Ma questa è un’altra storia.

Allo spostamento della data, di cui si è detto, mi ha fatto pensare una bellissima foto in bianco e nero, che ritrae proprio durante il festival della poesia a Castelporziano, Allen Ginsberg e Fernanda Pivano. Mi ha condotto a Fernanda Pivano la lettura della prefazione del libro di Alessandro Baricco “Castelli di rabbia”, titolata “L’ultima parola: America”. La curiosità è un tarlo benefico, ci fa giungere ad eventi e personaggi, spesso a caso, dove non avevamo minimamente pensato di arrivare. Ecco come leggendo il menzionato libro di Baricco ero arrivato a Fernanda Pivano, una scrittrice tra i migliori traduttori e conoscitori della letteratura americana. Così, partendo dalla Pivano, mi concedevo l’arbitrio (un lusso, ai nostri tempi) di prolungare di un anno la fine di quel movimento, il ‘68.  Per giungere infine a Rainer Maria Rilke. Qui non serve certo la celeberrima domanda “chi era costui?” di un qualsiasi Don Abbondio.

Troviamo dei versi in tedesco, ad inizio dei quattro capitoli dispari, di cui si compone il libro “Castelli di rabbia”. Questi versi sono tratti dalla raccolta Elegie Duinesi di Rilke, per la precisione costituiscono gli ultimi quattro versi della stessa raccolta, precisamente la decima elegia.

Il senso, semplificando una traduzione comparata: Noi che percepiamo la felicità come qualcosa che sale, rimaniamo sconvolti quando qualcosa di felice cade. Per molti che parteciparono al ’68, credo possa essere condivisibile una simile poetica intuizione, al di là dell’Autore e di qualsiasi poetica elegia. Se ne potrebbe dedurre: La ricerca della felicità, potrebbe allora essere il tema centrale del libro di Baricco? Non credo. È un libro invece dove si intrecciato tante vite e tutte diverse. Verrebbe di dire come in “Spon River Anthology” di Edgar Lee Masters. Non è un caso quindi che la Pivano ne abbia scritto la prefazione, sia per il libro di Baricco come per la pubblicazione dell’opera americana da lei stessa tradotta e pubblicata in Italia nel 1943.

Mi accorgo di agire e di scrivere come un personaggio del libro, un certo Pehnt: Le cose bisogna scriverle per non dimenticarle. Sì questo è il motivo principale per cui scrivo… Pehnt scriveva una frase al giorno “Se uno, via via che imparava le cose, se le scriveva avrebbe ottenuto alla fine un completo catalogo delle cose da sapere… scrivere una cosa significa possederla. Pensò a centinaia di pagine zeppe di parole e sentì che il mondo gli faceva molto meno paura”.

Il racconto ci dice come questo personaggio Pehnt, quando venne trovato infagottato in una giacca nera appoggiato alla porta di una chiesa, non aveva che due giorni di vita. E con quella giacca trascorse gran parte della sua giovinezza fino a quando la stessa giacca non gli stette bene ed allora partì in cerca di fortuna. Un po’ come tutti noi, partiamo lasciando la casa famigliare, quando finalmente la nostra “casacca” ci permette di essere autonomi. Per scoprire poi che non ne valeva la pena “…vivere allo scoperto, sempre pronti sul cornicione delle cose, a cercare l’impossibile, a spiare tutte le scappatoie per sgusciare via dalla realtà? E’ proprio obbligatorio essere eccezionali?”. Forse il ’68 voleva dire anche questo, un tentativo di sgusciare via dalla famiglia tradizionale, dalla società precostituita, dalla realtà!

Così come diventa inutile volere a tutti i costi realizzare i propri sogni, c’è un architetto in questa storia che sogna la realizzazione di un palazzo di vetro, il Crystal Palace. Succede che in un preciso momento della sua vita incontra una donna. Come capita o è capitato ad ognuno di noi: lo sguardo si incaglia nello sguardo di una donna ed è così che tutta la vita si incaglia, il proprio destino si incaglia. “…ci sono navi che si sono incagliate nei posti più assurdi. Una vita si può ben incagliare in una faccia qualunque”. Il Palazzo non si farà, la donna sarà sua moglie. Capita, è capitato, “la realtà ha una sua coerenza, illogica ma effettiva”.

Il personaggio che mi ha colpito di più in questo libro, a parte Pehnt che come me scrive per ricordare, è Pekisch, era riuscito a far suonare una sola nota ad ogni abitante del suo paese, formando un coro capace di eseguire stupende e complesse sinfonie. Peccato che ad un certo momento gli fosse scoppiata la musica in testa e non c’era nulla da fare. Non si può vivere con tante orchestre che ti suonano in testa. Un po’ come i sogni. Impossibile potere realizzare i nostri sogni specialmente quando sono tanti e contemporaneamente si vogliono condividere con tutti. Ecco sarà successo così anche per il ’68, si volevano realizzare tanti sogni… ma probabilmente ha avuto il sopravvento la quotidianità mediocre: “la realtà ha una sua coerenza, illogica ma effettiva”.

Ecco deve essere andata così, come per il signor Rail che voleva realizzare una lunga e dritta ferrovia. Non ci riuscì, rimase immobile nel suo giardino solo una locomotiva, ferma ad arrugginire. “Scivolano via, le sue giornate, come parole di una liturgia antica. Scompigliate dall’immaginazione e riordinate al fedele compasso della quotidianità. Riposano immobili su se stesse, esattamente in bilico tra ricordi e sogni”. Così è rimasta in bilico una generazione, quella del sessantotto, tra ricordi e sogni!

Tante le chiavi di lettura di un anno spesso mitizzato più che analizzato

 

Pubblicato da arzyncampo

14 febbraio 1954, bassa pianura emiliana, Fiorenzuola d'Arda, quell'era le debut. Oggi vivo e lavoro a Piacenza. Giornalista pubblicista, il destino ha voluto mi impegnassi in tuttaltro campo, al servizio dei cittadini nella sanità pubblica. Tuttavia scrivere, per me, é vitale, divertente, essenziale, un mezzo per esprimere la mia presenza nel mondo e dir la mia. Così dal giornalismo sono passato, per passione e non per lavoro, alla poesia, alla narrativa, ai resoconti, agli appunti ovunque e su tutto, fino alla scoperta del blog. Basta scrivere, appunto, per dire di aver qualcosa da dire alla gente di questo nostro mondo. Fin quando avrò una penna, ci sarò.

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