“Ma cosa diavolo sta succedendo? Ieri, 16 marzo 1978 …”, racconto di Claudio Arzani

1978, Roma, Manifestazione femminista. Foto di Gabriella Mercadini

Ma cosa diavolo sta succedendo?
Pietro mi guarda, si stringe nelle spalle, gli occhi tristi da triglia bollita. Doveva andare da Wilma, è già un po’ che se la fila ed oggi finalmente ci stava a studiare diritto pubblico dell’economia, ma ormai è troppo tardi, l’ora è fuggita via.

I portoni chiusi. E’ la prima volta. Il tempio della cultura, la cattedrale del sapere, del diritto, della libertà.
Le cancellate del passo carraio chiuse. Non le avevo mai notate. Non più di tanto, almeno. Forse con distrazione, senza farci caso. Non le ricordo chiuse, ed ora, ora mi sento soffocare.

A volte le giornate hanno il colore della nostra anima, dei nostri umori, del nostro sentire. Sento il cielo scuro, plumbeo, opprimente, il peso delle catene, delle libertà negate.
C’è da aspettare.

Fabio sta seduto sulla panca del giardino dove a volte si studia, a volte si parla, qualcuno amoreggia. Non c’è nulla da fare, il tempo è scandito da chi si è impadronito del nostro destino.
Torno nei corridoi, nelle aule, nelle biblioteche che custodiscono gelosamente i volumi delle storie di secoli di lotte, di pensieri, di confronti. Silenzio. E’ sparito anche il bidello, Luigi.

Apro la porta dell’Istituto di diritto ecclesiastico, di lì s’arriva alle spalle dell’aula magna di Medicina. L’armadio è aperto, le toghe rosse aspettano la prossima sessione di laurea. Mi lascio tentare, guardo d’attorno, non c’è nessuno, ne sfilo una dall’appendino, l’indosso, è pesa, fa un certo effetto, la ripongo, non è cosa mia, per ora, domani chissà.

C’è da aspettare. Nel cortile saranno ancora venticinque o trenta ragazzi. Passano uno alla volta e per ciascuno ci vogliono quindici minuti buoni.
Nei corridoi rumori di passi, qualcuno scende dallo scalone di Giurisprudenza.
Lo sciacquio dello scarico di un cesso, si apre la porta, esce Marina, lo sguardo perso, forse spaventata, incerta, non capisce, ma cosa diavolo succede? Almeno la troveranno pulita. Peccato, troppi soldi gettati nel cesso ed è fatica procurarseli. Il babbo ha un negozio in piazza a Guastalla, sotto i portici, non si nuota nell’oro, è già un dolore spenderli per pochi istanti di viaggio, non bisognerebbe, ma così è, magari verrà un tempo che non si potrà sognare più e intanto così fan tutti.

Un’ora, due ore d’inutili domande, d’attesa senza perché.

Nell’aula Salvator Allende campeggia ancora la scritta “Evviva Furia, cavallo del west”, dedica speciale al magnifico rettore, chiarissimo professor, con l’augurio di cavalcare per tutta la notte fino a Durango: anche i rettori hanno un cuore, si racconta nelle notti buie all’ombra argentea d’una luna assente. Sarà poi vero?
E intanto son passate più di due ore, mi si è fermato l’orologio, non si sa più cosa pensare, né a che santo votarsi. Ardua scelta tra Santo Antonio e Santo Domingo.

Ma alla fin fine arriva il mio turno, si apre il cancello, entro nell’androne, devo passare la sacca attraverso la seconda cancellata, mani sconosciute l’esplorano, la svuotano. Una consunta agendina tascabile con la copertina azzurra, regalo di Daniela, fazzoletti di carta per il naso e per pulire gli occhiali, l’immancabile fascia di stoffa perché non si sa mai, metti di trovarti nel bel mezzo di un lancio di fumogeni, il libretto universitario con i miei trenta (pochi) e il più basso, ventiquattro, un pacchetto di crackers, la biro, copia dell’Avanti! e di Lotta Continua.
Il giornale sta morendo, rischia di finire un’epoca, dobbiamo sostenerlo, difendere un presente troppo breve, già confuso nella nebbia del passato, l’ha detto anche Riccardo Lombardi.

Mani nervose, sguardi d’apparente fermezza carichi di tensione, aprono la seconda cancellata, mi ripassano la sacca, raccolgo l’adesivo con il sole che ride, caduto a terra, nella polvere che arriva da lontano, portata dal vento, da luoghi ancora sconosciuti, Three Mile Island, Chernobyl.

Mani nervose richiudono la cancellata alle mie spalle, resta ancora una porta di sbarre, ancora un chiavistello serrato, ancora mani nervose che scrutano, indagano, cercano chissà che.

Ma cosa diavolo sta succedendo? Tre uomini con la fascia rossa al braccio, Confederazione Italiana Generale Lavoratori, un mostro sacro, devo alzare le braccia, grazie, prego, ma cosa diavolo sta succedendo? Scusi, vuol ballare con me? Grazie, preferisco di no. Silenzio, nessuna risposta.

Con lo stridio del ferro contro il ferro scorre l’ultimo chiavistello, l’ultima barriera.
Libero.
Le scarpe da ginnastica (marca rigorosamente sconosciuta, laboratorio di produzione artigianale democratico in gruppo cooperativo, banco del mercato domenicale di Carpaneto, che più conveniente non ce n’è) volano nella galleria per arrivare in via Mazzini, col fiato sospeso, col timore dei carri armati, di mitra spianati, la fine del mondo, la Rosa dei Venti, l’ombra nera d’una dittatura che dopo trent’anni ritorna ghignante ed ancor più feroce.
Invece tram, gente in bicicletta, il viale lungo il fiume, viale Basetti a sinistra, viale Toschi a destra, oltre il ponte s’intravvedono le cime del verde del Parco Ducale, tutto normale, m’infilo da Filippo, ordino focaccia e mortadella. Da bere? Minerale, grazie. Ma non ho il coraggio di chiedere cosa diavolo sta succedendo.

Supero la Pilotta, oltrepasso Lettere e Filosofia, un elicottero bianco e blu continua a sorvolare le nostre teste, ma nessuno ci bada, si conversa al bar, ci si intrattiene all’edicola, un tizio paga il posteggiatore per ritirare l’auto. Nella vetrina di Franco Maria Ricci i libri in mostra sono sempre opere d’arte e via Garibaldi è sempre viva della solita gente.
Un juke box racconta la storia disperata di Lilly. La solita banda suona il rock, un cavallo galoppa senza sosta fino a Samarcanda ad incontrare la nera Signora, Capitan Uncino s’azzuffa con Peter Pan. E allora, cosa diavolo sta succedendo?

Arrivo in stazione, è un po’ come tana liberi tutti, un sospiro di sollievo, m’infilo in sala d’attesa, il solito Lecce ha un abisso di ritardo (40 minuti ufficiali, segnala il tabellone, ma alla fine son sempre di più). Toh, han tolto la vetrinetta con le violette di Parma, non c’è più religione.

La signora seduta sulla panca di fronte mi guarda un po’ di sottecchi, forse non mastica bene Lotta Continua. Il giornale non morde, non mordo neanch’io, ma la signora se ne va.
Con fretta composta raccoglie le sue cose, la borsa della spesa, la copia di Gente, se ne va nell’ombra dell’ultimo sole con un sorriso sul bel viso.

La guardo distrattamente uscire, un po’ seccato, e sulla porta appare la prima giacca blu con tanto di armi ed alti pennacchi (presi in prestito dai cugini dell’Arma?).
Guardo agli altri due ingressi. Altre due giacche blu si appostano, si accertano che non abbia vie di fughe, e finalmente arriva Mangiafuoco in giacca grigia e cravatta, mi invita al ballo nel suo paese dei balocchi.
Ma cosa diavolo sta succedendo?
Una processione.

Mangiafuoco mi offre il braccio, mi accompagna al castello, due giacche blu alle spalle, una davanti, tutta la stazione mi guarda con gli occhi gonfi d’invidia, vado a raggiunger Lucignolo. Si, sono preoccupato. Rassegnato.
Ma cosa diavolo sta succedendo?

Altre ore, facce di gente curiosa, documenti di qui, chi sei di là, ti conosco mascherina, solo in una stanza con troppi rumori d’attorno, un silenzio che t’assorda, un’altra ora, ancora due eppoi tre ore. A casa saran preoccupati, si, son preoccupato anch’io, vorrei capire, anzi, vorrei andare, rinuncio a capire, voglio solo andare.

Le ombre della sera hanno già avvolto le banchine e i binari, è l’ora in cui sono chiusi i bar e sembra morta la città, mi vien da piangere, sono ore che vorrei piangere, non ho più risposte, non ho mai avuto domande, la giacca blu che arriva con un sorriso stampato sul volto illuminato dalla lampada e l’etichetta in bella mostra Digos mi sembra una fata azzurra, sono magiche le parole che mi riportano sul treno, l’ultimo appena arrivato, poi avrei passato la notte in una città non mia, senza sapere dove dormire.
Mi accomodo sul vecchio sedile di velluto, tra una bruciatura e l’altra: sigaretta per bruciare il tempo, qualche macchia di caffè, turutun turutun, sessanta chilometri di strada ferrata e finalmente le alte ciminiere dell’Enel, piazzale Marconi, mi accoglie la mia città, un marocco nero mi sussurra ammicante do you want fly with me?, casa dolce casa, si torna da mammà, ancora sveglia, fuori dalla grazia di Dio per questo figlio perso chissà dove.

Sono le due della notte del 17 marzo 1978, cosa diavolo è successo?
Ieri, 16 marzo, le Brigate Rosse hanno rapito Aldo Moro, il gioco è finito, Furia non galoppa più, ci hanno azzoppato.

 


Pubblicato da arzyncampo

14 febbraio 1954, bassa pianura emiliana, Fiorenzuola d'Arda, quell'era le debut. Oggi vivo e lavoro a Piacenza. Giornalista pubblicista, il destino ha voluto mi impegnassi in tuttaltro campo, al servizio dei cittadini nella sanità pubblica. Tuttavia scrivere, per me, é vitale, divertente, essenziale, un mezzo per esprimere la mia presenza nel mondo e dir la mia. Così dal giornalismo sono passato, per passione e non per lavoro, alla poesia, alla narrativa, ai resoconti, agli appunti ovunque e su tutto, fino alla scoperta del blog. Basta scrivere, appunto, per dire di aver qualcosa da dire alla gente di questo nostro mondo. Fin quando avrò una penna, ci sarò.

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