“Ciò che ci lega: un film, forse due”, a cura di Carmelo Sciascia

Fare il vino non è impresa facile, richiede tempo, preparazione, impegno, credo sia una convinzione condivisa e condivisibile. Ma prima di parlare di vino si dovrebbe pensare all’uva e prima ancora alla pianta che la genera: il vigneto. Impiantare una vigna è stato il sogno di tante generazioni passate, per tanto tempo.
Ricordo che quando mio padre impiantò alcune centinaia di piantine si sentì completamente realizzato.
Realizzare un vigneto, seppur di piccole dimensioni era importante, voleva dire avere la possibilità di sopravvivere per più anni senza tener conto di quella proprietà, di quel terreno. Rappresentava più che un salto sociale, vedere realizzate le proprie aspirazioni di campagnuolo.

Lunghe le procedure per giungere alla piena produzione, anni di attesa. Dissodare il terreno, un’aratura profonda, una pulizia del terreno da pietre e residui arborei, la collocazione dei sostegni, la messa a dimora delle piantine, l’innesto delle stesse e via via di seguito finché la vite desse abbondanti grappoli, una quantità tale da essere portata al palmento dove l’uva pigiata da pesanti scarponi poteva essere trasformata in mosto.
Oggi, qualcosa sarà cambiato, ma io della vigna ho questo ricordo, ricordi del passato millennio. Lunghi tempi di attesa, anni di fatiche.
Deriverà da questi ricordi se nutro nei riguardi del vino un particolare riguardo, una attenzione quasi sacrale. O sarà perché da chierichetto dovevo fare parecchia attenzione nel porgere al prete l’ampolla contenete il vino per la transustanziazione durante la celebrazione eucaristica. Sembra, che nella ritualità di questo gesto, l’ufficialità della Chiesa venga a coincidere con quella di tantissimi frequentatori di taverne, di bettole, di semplici mescite di vino: “Il vino deve essere naturale, del frutto della vite e non alterato” (Diritto Canonico: Canone 924, paragrafo 3).
Molti come me sarebbero disposti a sottoscrivere l’affermazione del regista Cédric Klapisch: “Per me, il vino è mio padre. Conosco il vino attraverso mio padre…”. Credo sia stata questa ferma convinzione a persuadere il regista francese ha girare un film come “Ritorno in Borgogna”. Il film narra di una regione nel cuore della Francia, la Borgogna, dei suoi vigneti, delle colline, delle mutevoli stagioni e della poesia che ne deriva. La famiglia di Meursault, di questo paese della Borgogna che con il vino ha avuto ed avrà a che fare, dei ritrovati sentimenti dei tre fratelli, che alla morte del padre si trovano a dovere gestire l’intera proprietà, credo siano tutti elementi secondari, comparse. L’attore principale, il migliore attore del film è il vino, insieme alla terra ed ai vigneti che lo generano. Rimanere nella terra paterna, ritornare alle origine della propria cultura contadina questo è ciò che lega i tre fratelli, non a caso questo concetto è bene espresso dal titolo originale: “Ce qui nous lie”, ciò che ci lega.
Le colline francesi appaiono ricamate come certi lavori all’uncinetto delle nonne, i filari sembrano ornare il terreno: non lo sfruttano, gli fanno compagnia, lo accarezzano, lo completano. Il trascorso capodanno essendomi recato a Bordeaux, nella Gironda, restai meravigliato nel vedere filari di vite, perfino all’aeroporto di Mérignac.
Nella stessa settimana, ho avuto il piacere di assistere ad un altro film che di vino e di vigneti trattava.
Finché c’è prosecco c’è speranza” un’opera prima di Antonio Padovan, dall’omonimo libro di Fulvio Ervas, film girato nelle colline di Treviso, le colline del prosecco, tra le ville ed i borghi immersi nella splendida campagna veneta. Anche qui le colline appaiono come un ricco ricamo, “i filari sembrano ornare il terreno: non lo sfruttano, gli fanno compagnia, lo accarezzano, lo completano”. C’è un personaggio, il facoltoso Conte Desiderio Ancillotto che pur rimanendo poco sulla scena, prolunga come una lunga ombra, la sua presenza per tutta la durata del film. Tutto questo perché, come vuole la migliore tradizione contadina, bisogna sapere rispettare la terra ed il Conte sa, che per fare buon vino, bisogna amare la propria terra.
Erano i giovani nel film francese ad accusare il vicino di avvelenare i vigneti usando prodotti nocivi. I giovani che prendono coscienza di una tradizione che deve essere rispettata se si vuole continuare a fare una buona e sana produzione. Due film uniscono due generazioni: i giovani ereditieri francesi ed il maturo facoltoso nobile veneto. I vecchi ed i giovani che smentiscono la scontata contrapposizione ideologica tra generazioni. Un buon film esula dal genere, tant’è che come in questo caso possono andare a braccetto la “commedia” ed il “giallo”, importante contengano frammenti della nostra esistenza, della vita tout court.
È una commedia con un bel finale questo Ritorno in Borgogna, dove i rapporti parentali ed i sentimenti, maturano come il vino, lentamente; la Francia non è l’Australia, dove tutto avviene e si consuma velocemente.
Diciamo che il genere, così attuale nella produzione letteraria contemporanea del giallo poliziesco, ha una solida figura di riferimento nel poliziotto Stucky- Battiston che sa indagare nella giusta direzione perché i colpevoli alla fine saranno smascherati. Sono i proprietari di un cementificio che ha ammorbato l’aria, la campagna e tutto quanto era possibile avvelenare. Aveva visto giusto il vecchio conte Desiderio Ancillotto!
Al di là comunque di qualsiasi trama, avere visto i due film quasi in contemporanea, è stato come avere partecipato ad un brindisi, con, da una parte un buon vino francese e dall’altra un prosecco veneto.
Anche noi a Piacenza potremmo brindare, in fin dei conti, abbiamo problemi simili ai cugini francesi come abbiamo gli stessi problemi dei compatrioti veneti, ed in quanto a vini credo potrebbero bastare i nostri: un buon Gutturnio per chi ama i rossi, un frizzante Ortrugo per gli amanti del bianco.
Prosit: ai vecchi, ai giovani!
Carmelo Sciascia

Pubblicato da arzyncampo

14 febbraio 1954, bassa pianura emiliana, Fiorenzuola d'Arda, quell'era le debut. Oggi vivo e lavoro a Piacenza. Giornalista pubblicista, il destino ha voluto mi impegnassi in tuttaltro campo, al servizio dei cittadini nella sanità pubblica. Tuttavia scrivere, per me, é vitale, divertente, essenziale, un mezzo per esprimere la mia presenza nel mondo e dir la mia. Così dal giornalismo sono passato, per passione e non per lavoro, alla poesia, alla narrativa, ai resoconti, agli appunti ovunque e su tutto, fino alla scoperta del blog. Basta scrivere, appunto, per dire di aver qualcosa da dire alla gente di questo nostro mondo. Fin quando avrò una penna, ci sarò.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.