“Buona Pasqua dalla trincea degli ultimi”, lettera per Agnese dal fango del fronte

Nel giorno che tradizionalmente dedichiamo alla Pace, i miei auguri vengono dalle trincee, quelle lontane del 15-18 e quelle che in troppi paesi sono ancora scavate e colme di soldati in armi. [ La lettera che segue è ripresa dal blog “Grifoni in Rete”, a firma Nemesis ]

Cara Agnese, ti scrivo ancora dal fango di questa trincea, e in gran segreto, perché gli avvenimenti incalzano ma non voglio che la propaganda te li racconti in mia vece.
Ricordi lo spavento di un anno fa, quando rischiammo di replicare la tragedia di Caporetto?
Ebbene, è successo ancora, e solo un miracolo (o qualcos’altro) al penultimo minuto ha impedito il fatale tracollo a cui ci aveva condannato l’inettitudine e la superficialità del nostro Comandante, il Generale Enrico Preziosi, uno che viene dalla gavetta e si è fatto da solo, purtroppo!
Nemmeno il tempo di riorganizzarci che subito il destino ha preteso un riscatto, e un’inesorabile granata si è portata via il nostro Cappellano, fedele compagno di chiunque fosse in fondo alla fila.

Anzi, proprio lui aveva definito così la nostra postazione, “la trincea degli ultimi”, forse perché qui si è raccolta la truppa che nessuno ha voluto e gli scarti degli altri battaglioni, o forse per il sacrificio estremo a cui siamo condannati, o più semplicemente perché la nostra fedeltà ci farà soccombere per ultimi.
Comunque sia, da oggi ci sentiamo tutti un po’ più soli e perfino il nemico, che da mesi ci bombarda ininterrottamente, ha zittito per un giorno i propri cannoni, e ci piace interpretare questa tregua come un cavalleresco segno di rispetto per il nostro lutto.
In questa notte più buia del solito, in questo silenzio caliginoso e inusuale a cui non siamo più abituati, ciascuno di noi è al cospetto di se stesso, e ti stupiresti a osservare i volti di questi uomini rudi e avvezzi all’orrore: fissano il vuoto, e sanno di aver perso l’amico a cui affidavano la propria paura, l’insicurezza, la nostalgia, i dubbi, lo smarrimento, il dolore… e anche la solitudine, che a ben vedere è il nemico più temibile, senza divisa ma dotato di un’arma letale.
Cara Agnese, noi lo chiamavamo semplicemente Don, ma il suo modo di parlare non era certo quello di un prete qualunque, e perfino un ateo come me trovava conforto in lui che citava Cristo non per imporlo, ma per proporlo, e non come un’entità trascendente ma come un uomo vero che ha sofferto nella sua trincea sul Golgota.
Il Cappellano era un uomo di rara generosità, e per questo era attratto dalle persone semplici, dai diseredati e dai sofferenti, e le sue parole erano sempre la medicina migliore che un ferito potesse desiderare, anche se non riuscivano a tenere il ritmo con cui l’infermeria si riempiva.
Al contrario, se solo intuiva che un ufficiale si approfittasse del grado per infierire con spocchia e arroganza su un inferiore, lo metteva nel mirino e lo “distruggeva” con l’ironia,  oltre a ricordargli l’irrisolta questione del cammello alle prese con la cruna dell’ago.
Lo so, mentre scrivo ne parlo come fosse già un santo, ma è per affetto e non per altro; e comunque uno così non rischia certo la santificazione perché la Chiesa si basa su altri parametri, e il miracolo di confortare gli emarginati è molto indietro nella lista.
Lui dormiva di giorno, per stare vicino ai ragazzi che la notte uscivano in missione con un biglietto di sola andata, o per incoraggiare le sentinelle che dovevano condividere il freddo e il buio soltanto con la propria ombra, a cui spesso intimavano il “chi va là”, e addirittura qualche volta le scaricavano addosso il caricatore, però mancandola.

Questa gravissima perdita ci coglie in un momento delicato, perché il futuro è un rebus e l’unica certezza è che continueremo a marcire in questa buca, con il Generale che ci ripete due volte al giorno… “dovreste ringraziare di essere ancora vivi”… tanto chi avrebbe qualcosa da ridire non può farlo, perché è già morto.
Intanto però i rifornimenti cominciano a mancare, le munizioni scarseggiano, il rancio fa schifo, e tutti i muli che arrivano dalle retrovie non portano i rinforzi, ma solo la posta da casa e le congratulazioni del Comando per la nostra resistenza, anche se i troppi elogi sono sempre sospetti, e preludono a qualche fregatura.
Il Colonnello Ballardini, che tutti stimano come persona e un po’ meno come stratega, ha sistemato da par suo la linea difensiva, e va bene, di qui non si passa, ma così nemmeno riusciamo ad avanzare, incapaci di insidiare il fortino nemico, senza tattiche diversive, senza fantasia, senza entusiasmo, senza condottieri che traccino il percorso, e senza eroi disposti al sacrificio che lo affrontino.
E sai che succederà adesso? Pare che il Generale Preziosi voglia imitare il Capo Supremo Cadorna, quello che rimuove gli Ufficiali se appena lo deludono, e così ancora non sappiamo chi verrà a guidarci in battaglia, sperando non arrivi qualcuno che ci organizzi la ritirata.
Si parla di uno troppo giovane ma già abbastanza presuntuoso, di un altro che sembra più Austriaco che Italiano, e infatti non si capisce una parola di quel che dice; gira voce che ci mandino un raccomandato fatto in casa, o un riciclato che ha più credito di quanto meriti, o forse uno che ha appena subito una batosta da un’altra parte… non so, può venire chi vuole, ma se non si rinforza il Reggimento siamo già condannati, perché oggi è composto solo dagli anziani della riserva e dai Ragazzi del 99, coraggiosi, ma troppo inesperti per reggere le insidie del fronte.
L’unica certezza che ci è rimasta è la bandiera, che infatti sventola orgogliosa e che nessun cecchino riesce ad abbattere, ma quando potremo issarla oltre questa “terra di nessuno” che però ciascuno difende alla morte come fosse la propria?
Chiunque arrivi dovrà far sì che la “trincea degli ultimi” sia soltanto una didascalia e il ricordo del nostro Cappellano, ma guai se fosse la prospettiva del “progetto”, che tra l’altro è un termine fuori luogo per un esercito di terracotta che annaspa nel fango.
I più valorosi e i più audaci non sopportano questa latenza, e nel migliore dei casi chiedono il trasferimento nei reparti d’assalto; altri hanno disertato, purtroppo, ma sono casi sporadici, anche perché chi viene catturato rischia la fucilazione, benché ci sia sempre chi li difende.
Pensa che addirittura il Comandante ha messo agli arresti i più vivaci del mio Battaglione, magari non irreprensibili nella disciplina, ma punti di riferimento per gli altri e fondamentali per lo spirito di gruppo, che infatti si è disciolto: ma che senso ha acuire la tensione in un momento così complicato?
Dalle tue lettere ho capito che in Italia circola un’idea falsa di quanto avviene al fronte, con i bollettini e i giornali che fanno credere come la macchina bellica funzioni al meglio, e quanto poco manchi alla vittoria.
Ma la gente non si pone domande? Non si chiede se sia tutto un trucco, un’illusione ottica, una favola, una menzogna pilotata, una versione di comodo?
E’ la solita utile alleanza tra chi trae vantaggio nel mistificare e chi nel far finta di non vedere, e speriamo di no, ma se un giorno il nemico dovesse per davvero sfondare e sopraffarci, immagino lo sciagurato confronto tra quelli del “ma come è potuto accadere?” e quelli del “io l’avevo detto”: tutto inutile, ormai sarebbe semplicemente… “troppo tardi”.
Mia cara Agnese, ormai l’hai capito, non ce la faccio proprio a scriverti che sto bene e quindi anche tu, come dice il mio Comandante, devi accontentarti di sapermi vivo… sempre che questa sia vita.
A volte capita che un bengala accenda la notte, ed è come scostare il sipario sull’affresco della nostra miseria: ci guardiamo l’un l’altro e ci compatiamo, soli insieme, stanchi, afflosciati, immobili, con gli sguardi delusi, contorti, vitrei, così trasparenti da poter leggere i pensieri che sfogliamo nella mente, perché sono gli stessi per tutti, proprio come la divisa che indossiamo.
Ed è in quel momento di intimità svelata che il passato e il futuro si sovrappongono e mi imbrogliano, perché in fondo quel che desidero è tornare quel che ero, senza medaglie al valore ma nemmeno alla memoria, e con una dignità che nessuna emergenza poteva, né potrà, manipolare.
Ciao a presto Agnese, forse.
 

Pubblicato da arzyncampo

14 febbraio 1954, bassa pianura emiliana, Fiorenzuola d'Arda, quell'era le debut. Oggi vivo e lavoro a Piacenza. Giornalista pubblicista, il destino ha voluto mi impegnassi in tuttaltro campo, al servizio dei cittadini nella sanità pubblica. Tuttavia scrivere, per me, é vitale, divertente, essenziale, un mezzo per esprimere la mia presenza nel mondo e dir la mia. Così dal giornalismo sono passato, per passione e non per lavoro, alla poesia, alla narrativa, ai resoconti, agli appunti ovunque e su tutto, fino alla scoperta del blog. Basta scrivere, appunto, per dire di aver qualcosa da dire alla gente di questo nostro mondo. Fin quando avrò una penna, ci sarò.

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