“Accabadora”, romanzo di Michela Murgia, Einaudi editore, 2009

Il termine sardo femina agabbadora, femina agabbadòra o, più comunemente, agabbadora (s’agabbadóra, lett. “colei che finisce”, deriva dal sardo s’acabbu, “la fine” o dallo spagnolo acabar, “terminare”) denota la figura storicamente incerta di una donna che si incaricava di portare la morte a persone di qualunque età, nel caso in cui queste fossero in condizioni di malattia tali da portare i familiari o la stessa vittima a richiederne l’eutanasia. La pratica non doveva essere retribuita dai parenti del malato poiché il pagare per dare la morte era contrario ai dettami religiosi e della superstizione. Diverse sono le pratiche di uccisione utilizzate dalla femina agabbadora: la tradizione, a seconda del luogo, la vede entrare nella stanza del morente vestita di nero, con il volto coperto, e ucciderlo tramite soffocamento con un cuscino, oppure colpendolo sulla fronte tramite un bastone d’olivo o dietro la nuca con un colpo secco. Il libro della Murgia, che ci fa conoscere questa figura della quale racconta la tradizione popolare sarda, racconta una storia ambientata negli anni 50 e ci fa conoscere innanzitutto il concetto di fill’ de anima: Tzia Bonaria Urrai, vedova e senza figli, offre una cifra che non è possibile rifiutare a Anna Teresa Listru, vedova a sua volta con quattro figlie da mantenere. Una somma per adottare Maria, appunto la quarta figlia di Anna, sei anni e un’intelligenza vispa. Così Maria dalla vita di miseria e di fame (la madre diceva che sapeva fare il bollito anche con l’ombra del campanile), diventa figlia d’anima e passa alla bella casa della benestante Tzia, alla frequenza della scuola, all’apprendimento dell’arte del cucito. Certo non mancano i momenti bui della loro convivenza: dove va, di notte, Tzia, vestita di nero, con lo scialle sulla testa, seguendo ora un uomo, ora altre persone che passano a prenderla? Lo scoprirà Maria, una volta cresciuta, al funerale di un giovane rimasto invalido per un colpo di fucile sparato forse per errore e non potrà sopportare quella scoperta. Se ne andrà. A Torino, assunta da una famiglia benestante per fare la bambinaia. Ma, quando Tzia Bonaria starà male, tornerà per assisterla trovando una vecchia ormai incapace di parlare e che tuttavia, passando i mesi, non conclude la sua vita come se qualcosa lo impedisse. Forse, anche se le accabadore non sono considerate assassine dalla gente del popolo, qualcuno di quanti ha portato verso la morte non gliel’ha perdonata ed ora impedisce al suo spirito di trovare la pace? Sarà Maria a portarla verso l’ultimo sospiro.

Pubblicato da arzyncampo

14 febbraio 1954, bassa pianura emiliana, Fiorenzuola d'Arda, quell'era le debut. Oggi vivo e lavoro a Piacenza. Giornalista pubblicista, il destino ha voluto mi impegnassi in tuttaltro campo, al servizio dei cittadini nella sanità pubblica. Tuttavia scrivere, per me, é vitale, divertente, essenziale, un mezzo per esprimere la mia presenza nel mondo e dir la mia. Così dal giornalismo sono passato, per passione e non per lavoro, alla poesia, alla narrativa, ai resoconti, agli appunti ovunque e su tutto, fino alla scoperta del blog. Basta scrivere, appunto, per dire di aver qualcosa da dire alla gente di questo nostro mondo. Fin quando avrò una penna, ci sarò.

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